“Non è l’eroina che ti rende uno zombie. Non è la canna che ti rilassa e ti inietta gli occhi di sangue. La coca è la droga performativa”.Così dice Saviano nel lungo monologo scritto che passa per essere il suo secondo romanzo e che per certi versi sembra essere stato composto sotto l’influenza del suo oggetto. L’ossessione per una scrittura gonfia e performativa appunto si riattizza una riga dopo l’altra. Ma del resto viviamo in un Paese dove siamo abituati a una droga chiamata Silvio che riassume in sé gli effetti di molte sostanze: promette perfomance, ti invita a rilassarti e alla fine ti rende uno zombie,
Ma soprattutto crea quel circolo di dipendenza da cui per una metà degli italiani è difficile uscire: non appena hai rinunciato a mettere la croce sopra quella faccia di bronzo, ti senti in astinenza, ti devono legare al letto per impedirti di andarti a procurare un po’ di Silvio dal commercialista all’angolo. Tagliato ora col condono edilizio, ora con quel po’ di evasione, ora con la magnesia bisurata delle promesse irrealizzabili, il narco cavaliere agisce sui neuroni della gracile democrazia italiana, rasserena con gli alibi che fornisce ad ogni tradimento dei doveri di cittadinanza e ti rende come una creta malleabile nelle mani dei potentati bancari e del capitalismo finanziario. Ma a te sembra di aver inalato la polvere magica, di poter dominare tutto questo: venti euro e un panino con la mortadella e Piazza del Popolo ti sembra un grande affare. O a Bari ti senti la sacra corona unita.
Del resto proprio questo è il segreto: man mano che Silvio entra in circolo e distrugge l’economia, l’etica, la convivenza, il buon gusto più hai bisogno delle sue rassicurazioni. Alla fine ti ritrovi dentro un ufficio postale per il rimborso dell’imu e nemmeno chiamano gli infermieri: sanno che presto creperai per overdose. Ci sarebbe bisogno di una disintossicazione lunga e profonda, di una nuova speranza, di nuove ragioni, ma purtroppo per molti anni l’unica cura proposta dalle opposizioni non è stato il lavoro, un diverso patto sociale, un progetto che coinvolgesse, una società più giusta, ma il metadone e una qualche dose di punitività ispirata a San Patrignano Sempre una dipendenza, forse più controllata, non soggetta ad arresto, ma nulla di realmente diverso: un purgatorio artificiale, invece dell’illusorio paradiso. Così quando il pusher si riaffaccia all’angolo televisivo, trovi di nuovo la fila per la solita dose.
Di certo non è sufficiente dire basta perché il circolo vizioso si interrompa, bisogna sporcarsi le mani. E magari dopo i lavacri nei catini di Ponzio Pilato evitare che la terapia al metadone continui ad essere la dottrina e la sostanza del Quirinale. Anche perché la lucidità sarà essenziale nei prossimi anni e in fondo un po’ di decenza, anche solo per provare non potrà farci del male. Magari anche un po’ di sana follia.