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Simon balestrazzi

Creato il 23 novembre 2013 da The New Noise @TheNewNoiseIt

Simon Balestrazzi - foto di Antonio De Luca

Tra le varie figure emerse dal nostro panorama underground, quella di Simon Balestrazzi ha il merito di aver dato nuovi risvolti alle sonorità “industriali”, arrivate qui da noi a inizio anni ’80 sull’onda del successo di gruppi-capostipite del genere come Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, Einstürzende Neubauten, Pere Ubu. L’omonima prima opera del suo gruppo, i Tomografia Assiale Computerizzata, ha come poche altre saputo incarnare i miraggi di quella zona d’ombra italiana irreprensibile e brulicante di continue urgenze creative.

La storia di Balestrazzi e dei T.A.C. è fatta di cambiamenti. La pubblicazione de Il Teatro Della Crudeltà nel 1987 segna il primo momento di stop del progetto. Dai sei anni di silenzio – che precedono la “svolta” verso approcci più ambient e sperimentali di A Circle Of Limbs – esce un Simon musicalmente rafforzato dalla nuova schiera di musicisti alla quale può affidarsi: Enrico Marani (Le Forbici Di Manitù), con il quale ri-collaborerà nel 2012 nel progetto Sarang, ed Angelo Bergamini (Kirlian Camera). Con quest’ultimo avvia una collaborazione trasversale, che interrompe quando si trasferisce New York. Un periodo passato in studi di registrazione più per ascoltare che per fare musica, eppure è proprio durante il soggiorno americano che Balestrazzi – rimasto da solo alla guida della sua creatura – mette assieme il riuscitissimo Chaosphere. Questo lavoro uscirà appena oggi, nel 2013, in un momento in cui non si sentiva più niente di sostanzioso a nome T.A.C. dal trittico di inizio Duemila per Small Voices (a esperienza nella Grande Mela conclusa): Waiting For The Twilight, Twilight Rituals e Splintered. Dischi, questi tre, caratterizzati – oltre che da una formazione rifatta ex-novo – da uno spostamento verso suoni tout court downtempo/trip hop dentro a casse di risonanza elettro-acustiche. Da qui in poi Balestrazzi, che vive a Cagliari da qualche anno, intraprende un sentiero molto fruttuoso di collaborazioni con artisti come Tim Hodgkinson , Max Eastley, Z’EV, Ikue Mori, Sylvie Courvoisier e Alessandro Olla, Maja S. K. Ratkje. Nascono inoltre nuovi progetti collegati “all’area” Ticonzero, come Dream Weapon Ritual e A Sphere Of Simple Green.

Da ricordare, infine, le emanazioni noise dei Candor Chasma, sigla dietro alla quale opera insieme all’Uncodified Corrado Altieri (anche lui già impegnato in partecipazioni dell’ultima ora ai T.A.C.) e la conoscenza con la Trasponsonic di Mirko Santoru, che sono collaborazioni che fanno abbracciare al musicista emiliano una nuova corrente filo-industriale made in Sardinia. Parallelamente si assiste al suo percorso solista, una sorta di seconda giovinezza: escono La Montaña Sagrada e The Sky Is Full Of Kites, ai quali si può aggiungere In Memoriam J. G. Ballard, un disco firmato assieme a Gianluca Becuzzi e (di nuovo) Altieri.

Una carriera tuttora in divenire, che dimostra come Simon Balestrazzi sia stato più di una tra le tante meteore apparse durante il diy ’80 italiano. Grazie a quest’intervista, abbiamo la possibilità conoscere meglio la sua lunga marcia.

Volevamo approfittare brevemente della tua pazienza per toglierci un paio di curiosità sulle origini. Siamo nel 1983. L’uscita in vinile del disco dei T.A.C. (piuttosto rara in quel giro e in quel periodo) amplificò in qualche modo l’interesse della scena “alternativa”/sotterranea italiana (e non) per la vostra musica?

Simon Balestrazzi: Non particolarmente… 1983: è l’anno di “Vacanze Romane” dei Matia Bazar, in Italia dominava una (new) wave più fighetta e trendy e stava per arrivare la “new wave italiana cantata in italiano”… Scherzi a parte, ai tempi eravamo un gruppo troppo ostico e poco propenso a compromessi: siamo sempre rimasti al margine, come tutti gli artisti legati all’industrial o comunque fuori dai modelli dominanti. L’Italia era ed è un paese poco propenso alle innovazioni e i T.A.C. sono sempre stati maestri nel “dare alla gente ciò che non vuole”… Certo un uscita in vinile un minimo di attenzione in più ce la portò, ma niente di particolarmente rilevante. Anche la critica, ai tempi, rimase parecchio spiazzata e non sapeva come classificarci… c’erano le radici industrial e rumoriste, ma anche le influenze di band non allineate di metà/fine Settanta come Pere Ubu, Mars e DNA o gli Area e pure certe atmosfere vicine alla contemporanea e all’elettroacustica (anche se eravamo tutto fuorché musicisti accademici o bravi strumentisti). Diverso discorso per l’estero, dove invece ci furono molte più attenzioni nei nostri confronti. E nonostante quel disco non fosse poi a mio parere così pienamente riuscito, a distanza di trent’anni direi che è invecchiato decisamente bene rispetto ad altre produzioni italiane più attente a rispettare i parametri dettati dall’epoca.

Con Il Teatro Della Crudeltà, pubblicato nel 1987, ci fu il primo stop dei T.A.C. e l’anno seguente sarebbe uscito per ADN il primo ed unico lavoro per intero dei Kino Glaz (collettivo in cui vi conoscevate un po’ tutti). C’è qualche collegamento o qualche storia ancora non detta?

Nessuna storia che non si conosca già. Poco dopo il completamento de Il Teatro Della Crudeltà, verso la metà del 1986, la situazione della band divenne caotica, con continui abbandoni e avvicendamenti. Nel maggio del 1987 ci fu l’ultimo concerto con Andrea Azzali, l’unico altro membro storico oltre me, ancora in formazione. Nel frattempo i Kino Glaz nascevano all’inizio del 1986 come progetto mio e di Gregorio Bardini (che aveva abbandonato i T.A.C. l’anno precedente). Poco dopo si aggiunsero Paola Sartori e Patrizia Mattioli e per un breve periodo Celestino Pes (futuro Andromeda Complex). Il progetto piacque molto ad Alberto Crosta di ADN e verso fine anno eravamo già al lavoro sull’album. Intanto, a complicare ulteriormente le cose, tutti quanti i membri di Kino Glaz entrarono far parte di T.A.C. e, sempre a maggio ’87, anche Kino Glaz di fatto non esisteva più… Ora che ci sto ripensando, eccolo il piccolo segreto: verso fine ’87 rientrammo in studio per completare il lavoro con il brano che avevo composto per la chiusura dell’album e mi ricordo che ci scambiavamo di nascosto bigliettini con micro-partiture e istruzioni per non far capire al nostro produttore che di fatto non stavamo più suonando insieme da tempo… Tra l’altro, a mio parere, “Giardini D’Europa” è uno dei pezzi meglio riusciti.

Rimaniamo ancora stavolta sui T.A.C. e parliamo di Chaosphere, che vede la luce molto dopo il suo concepimento. Come ti sentivi all’epoca a dover lavorare da solo e in perfetta autonomia a un disco a nome T.A.C.?

Mi ci ero già abituato mio malgrado… Come dicevo prima, i T.A.C., a partire dal 1985, hanno sempre avuto formazioni estremamente instabili. E poi, fin dalle registrazioni del precedente Apotropaismo, la collaborazione di Angelo Bergamini e Emilia Lo Jacono si era allentata e mi trovavo molto spesso in studio da solo o con un solo musicista per volta. D’altra parte la loro partecipazione a T.A.C. è sempre stata molto più basata sul lavoro di produzione o sul confrontarsi e scambiarsi idee e strategie che sul “suonare”. Stessa cosa si può dire di me all’interno dei Kirlian Camera. Quando mi misi al lavoro su Chaosphere, mi ero trasferito a New York solo da pochi mesi e avevo dato per scontato che avrei proseguito senza una nuova formazione, almeno finché non avessi capito se sarei rimasto negli States o se avrei fatto ritorno in Italia. Mi sarebbe piaciuto inserire alcuni interventi di musicisti legati al giro illbient, ma la cosa non si concretizzò e comunque il lavoro era fortemente ispirato a “Solaris” e “Stalker” di Tarkovskij e c’è molta solitudine in quei film…

Vieni spesso inserito nella tradizione nobile dell’industrial italiano, qualcosa che tanti all’estero ricordano e ci invidiano. Il tuo disco su Boring Machines, per dirne uno, oltre a varie collaborazioni particolari, fa pensare che tu sia una figura meno incasellabile, tipo Teardo, Bernocchi o Toniutti. Teardo, nell’intervista che gli abbiamo fatto, diceva che tutto sommato in quel periodo molti cosiddetti “industriali” semplicemente iniziavano a fare cose che “assomigliassero solo a loro”, non cioè a fare “cose industrial”. Tu come la vedi?

In buona sostanza sono assolutamente d’accordo con quanto dice Teho, l’industrial italiano è stato in buona parte la culla di tanta musica creativa di casa nostra. Ma andrebbe seriamente riconsiderato e contestualizzato il termine industrial: per me, e per molti altri del giro, l’industrial già nel 1984 apparteneva al passato e ci tenevamo non poco ad essere considerati post-industrial. A questo andrebbe aggiunto che l’industrial, quello delle origini, nasce come non-genere, non ha un suono formalmente e univocamente codificato ma è un metodo, un approccio alla materia sonora e soprattutto concettuale. Se poi ci si documentasse sulla stampa dell’epoca si scoprirebbe che le tre formazioni che nella prima metà degli anni ’80 venivano sempre citate come principali esponenti dell’ industriale italiano, ovvero Tasaday, F:A.R. e noi, solo qualche anno dopo, diciamo verso la fine degli ’80, non sarebbero mai state considerate “industrial”: nessuno di noi, né di altre band della nostra area, come per esempio Officine Schwartz o Brain Discipline, aveva un suono che oggi verrebbe definito tipicamente industrial. Per contro, e per complicare il tutto, bisogna ricordare che gli stessi M.B., Mauthausen Orchestra o Giancarlo Toniutti ai tempi rientravano nella categoria “power electronics” (più di area Broken Flag che Come Rec.) e che anche grazie alla TRAX di Vittore Baroni l’Italia era entrata nel network delle tapes DIY, dove buona parte della musica creativa e priva di confini dei tempi si incontrava con le esperienze, molte nate dall’industrial, inglesi ed americane in un mix ancora meno codificabile. Oppure basterebbe ricordare cha ADN pubblicava tapes di Merzbow o l’esordio vinilico di Sigillum S, ma era anche la branca italiana della Recommended Records…

Sono anni molto produttivi per te, questi. Dove trovi l’ispirazione? Che suono stai cercando di ottenere in questa parte del tuo percorso?

Con gli anni ho imparato ad ottimizzare il mio modo di lavorare e temo di essermi adattato a questa abitudine ormai consolidata di pubblicare tutto quello che si fa… L’ispirazione arriva da quello che mi circonda, ma anche arte, cinema e letteratura sono suggestioni molto importanti. Non ho regole stabilite: quando lavoro da solo generalmente parto da un concept molto rigoroso, sia esso basato sulla struttura musicale o sul metodo di generazione del suono, sia invece un input extramusicale. In realtà preferisco non rendere tutto ciò esplicito, a meno non sia veramente importante per apprezzare il lavoro. Probabilmente l’idea di concept album mi ricorda troppo il progressive… Negli ultimi anni poi ho dedicato parecchie energie all’improv, radicale e/o elettroacustica. Ho avuto la fortuna e l’onore di poter suonare con musicisti quali Tim Hodgkinson (che mi ha letteralmente aperto una nuova via), Max Eastley, Ikue Mori, Alessandro Olla, Maja Ratkje, Damo Suzuki, Z’EV. Tutte esperienze che mi hanno consentito di sviluppare nuovi preziosi metodi di lavoro.

Simon Balestrazzi - foto di Guglielmo Mereu

Un tributo esplicito, secco, a Ballard. Sappiamo che è un nume tutelare di tanta musica e di tanto cinema degli ultimi anni, oltre che ovviamente di tanta letteratura. Chi è stato Ballard per te?

Insieme a Vonnegut e Burroughs uno dei pochi scrittori la cui dipartita mi ha causato una profonda stretta al cuore… Ballard aveva una capacità di analizzare e decodificare la realtà e ricostruirla in modo distopico e visionario assolutamente unico. Mi manca.

Secondo noi è un peccato che La Montaña Sagrada sia uscito in un’edizione così limitata e carbonara. È molto buono come disco, è moderno e soprattutto tu hai avuto davvero la chance di lavorare con Jodorowski. Sempre secondo me quest’ultima è una storia che chi ci legge vuole conoscere…

Grazie davvero. Vedi, qui il concept andava assolutamente esplicitato visto che si tratta della sonorizzazione del film di Jodorowsky. Anche se mi sono avvicinato a questo progetto tante volte nel corso di più di un decennio, alla fine La Montaña Sagrada è nato in modo talmente rapido, casuale ed estemporaneo che il formato cd-r gli si addice. Comunque sono molto soddisfatto del risultato e prima o poi vedrò di ristamparlo in un formato più consono.

A bruciapelo sull’attualità stretta. The Haxan Cloak, Raime, Demdike Stare: chi sono i tuoi preferiti?

Senza dubbio tutti e tre!

Vedo che tieni d’occhio anche le uscite Utech. Ti piace il mix di generi sperimentali ed estremi che Keith propone? Spesso anticipa le label più grosse…

Più che la capacità della Utech di giocare d’anticipo è la qualità costante e l’abilità di trovare band che cercano nuove strade a un suono oscuro che mi colpisce. Il loro catalogo è tra i pochi che vorrei possedere integralmente… con picchi che vanno da Locrian a William Fowler Collins, da Ural Umbo a Daniel Menche senza dimenticare Architeuthis Rex, al momento una delle mie band italiane preferite.

Com’è andato l’evento organizzato da Trasponsonic? Funziona una proposta simile in Sardegna?

Assolutamente un evento riuscitissimo, anche come affluenza di pubblico, e un’esperienza positiva. Suonare a Nasprias Cave è sempre estremamente affascinante e piacevole, soprattutto grazie all’impegno e alla generosità di Mirko e Laura. La Sardegna è un luogo bizzarro e riserva sempre sorprese: in questo momento si è creato un certo interesse intorno a questo suono scuro e, mi si passi il termine improprio, sperimentale, che guarda spesso all’industrial old school ma senza troppa nostalgia. Troppo poco per parlare di scena ma qual cosa si muove… ci sono nuovi progetti, la rassegna “Solo Il Mio Nero” cresce edizione dopo edizione, il Signal Festival continua ad ospitare ogni anno qualche musicista di quest’area. Ed è di questi giorni la notizia che finalmente Trasponsonic ha aperto un vero e proprio club per concerti ed esposizioni.

A che cosa stai lavorando ora? Prossimi progetti?

Per quel che riguarda le produzioni a mio nome spesso lavoro a parecchi progetti in contemporanea per poi concentrarmi solo su qualcuno in particolare, ma forse questa volta ho esagerato… ho almeno quattro lavori in “lenta cottura”, di cui il primo probabilmente sarà una lunga composizione basata su “Four Systems” di Earle Brown. Il nuovo Candor Chasma è praticamente finito e in attesa di una label. Anzi, visto che stiamo lavorando parecchio live (recentemente il LEM festival di Barcellona, tra poco la sonorizzazione live di due film, poi il Destination Morgue a Roma) approfitteremo del momento intenso per approntare un lavoro da pubblicare a breve su tape o comunque ultra-limited. Intanto sto completando il mixdown di From Imitation To Empathy, l’esordio del progetto Resonance Behaviour che è nato dalla collaborazione con Andrea ‘Ics’ Ferraris più un discreto numero di collaboratori (Mauro Sciaccaluga, Jared Russell, Dalila Kayros, Nino Locatelli, Daniele Santagiuliana e Andrea Serrapiglio). Sto mixando anche il nuovo album di Dream Weapon Ritual e anche in questo lavoro ci sono interventi di alcuni preziosi ospiti: Antonio Gallucci (Architeuthis Rex, Kapustin Yar), Mirko Santoru (aka M.S.Miroslaw, Hermetic Brotherhood Of Lux-or), Massimo Olla (Noisedelik) e Donato Epiro (Cannibal Movie). Poi, proprio pochi giorni fa con la pianista Silvia Corda abbiamo presentato al festival Spaziomusica il lavoro “My Fingers, My Hand, My Shadow” per piano preparato e live electronics che abbiamo anche registrato in vista di una possibile pubblicazione e già che c’eravamo abbiamo registrato anche con il contrabbassista Adriano Orrù materiali per il nuovo album del nostro trio A Sphere Of Simple Green. E se non bastasse sto faticosamente “ricostruendo” il mix originale di Symphonie Industrielle (per l’appunto…), un altro lost album di T.A.C. realizzato a metà ’85 da Andrea Azzali e me, proprio nel breve periodo intercorso tra lo scioglimento della prima formazione e il costituirsi della seconda, che uscirà nella serie di ristampe di Officina Fonografica Italiana e sto anche restaurando brani da compilation, live ed inediti per un box retrospettivo previsto su Show Me Your Wounds.

Simon Balestrazzi

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