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Il Messico di Cary Joji Fukunaga, regista debuttante che ha impiegato due anni per la realizzazione di Sin Nombre (2009), è questo: distruzione e ricostruzione di sé attraverso l’appartenenza ad una gang criminale. La legge non esiste, chi comanda sono le pallottole. L’attinenza alla veridicità dei fatti è notevole, Fukunaga in fase di sceneggiatura si è avvalso della collaborazione di due “frequentatori” dei luoghi rappresentati in modo da rendere il più realisticamente possibile la malavita di quelle zone. Ne consegue che gli appellativi delle varie cosche sono effettivamente reali (la Mara Salvatrucha esiste sul serio), cosiccome sono attendibili i loro rituali, i loro gesti e, purtroppo, anche la loro brutale violenza.
Il cinema si fa veicolo di questa miseria riprendendo animosamente l’introduzione del poco più che bambino Smiley sotto l’ala protettrice di Casper all’interno della banda. Ad equilibrare un quadro così crudo ci pensa la storia parallela che scorre sui binari della speranza: un treno merci sovraffollato di clandestini che lentissimo attraversa il centro america direzione USA. Qui le persone pur avendo poco hanno almeno un nome (la bella Sayra), non esibiscono tatuaggi ma anzi si nascondono sotto sporche coperte durante la pioggia. Inutile dire che il passaggio di questo treno raccoglierà passeggeri di ogni ordine e categoria.
Un film presentato al Sundance ha (quasi) sempre motivo di interesse. Non è questione di essere anticonvenzionali rifiutando aprioristicamente le opere high-budget, si tratta a mio parere di riconoscere oggettivamente che in questo Festival vengono (r)accolte pellicole di buona qualità, tra cui si inscrive anche questo lungometraggio. Parlare bene di Sin Nombre è fin troppo facile, perciò sottolineerò ciò che a mio parere non va, si tratta di poco più che dettagli, i quali però hanno un loro peso specifico. È che in un’atmosfera marchiata da una tale ferocia resa in maniera convincente, bisogna darne merito, ho avvertito una certa insistenza nel voler inserire a tutti i costi una componente sentimentale all’interno della storia. Gli amori di Casper, che sono due ma è come se fossero uno solo, vengono suggeriti con una lieve pressione da parte del regista (“ne troverai un’altra”) creando così situazioni troppo romanzate rispetto al clima di credibile sopraffazione fino a quel momento inscenato. I dubbi che una ragazzina come Sayra, riunitasi con il padre dopo anni di lontananza e in viaggio verso un mondo migliore, scenda da quel treno per seguire un poco di buono tallonato da elementi non proprio raccomandabili, configurano il legame sentimentale come una superflua forzatura di matrice mainstreamers dove il protagonista maschile è sempre affiancato da una controparte femminile.
Scavalcata questa parentesi non resta che spendere due parole sul finale. Prevedibile o meno esso tarpa le ali ad una qualunque possibilità di rinascita. Tradire la banda significa morire, il sistema criminale vince sempre, e quell’ultimo colpo di rivoltella, terribile soprattutto per chi tiene in mano l’arma, chiude il sipario su un film che pur avendo qualche flessione interna ha il merito di aprirci gli occhi su due realtà (emigrazione e delinquenza) dell’America Centrale di cui sapevamo poco o niente.
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