Siria: attacco in stand-by

Creato il 03 settembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Maria Serra

Sfumata nel corso dell’estate qualsiasi possibilità di portare le maggiori diplomazie internazionali al tavolo dei negoziati di Ginevra, il conflitto siriano è entrato in una nuova fase all’indomani dell’annuncio da parte dei ribelli dell’utilizzo di armi chimiche – prontamente smentito da Damasco – da parte del regime di Assad. Il bombardamento con gas nervini – tra cui anche il sarin – sarebbe stato compiuto nelle prime ore del 21 agosto nelle aree del Ghouta orientale (regione ad est della capitale) in mano ai ribelli e, precisamente, nelle località di Ayn Tarma, Zamalka, Hamuriya, Arbin, Saqba, Kfar Batna e Duma, e a sud della stessa Damasco, a Daraya e Muaddamiya. Un video diffuso dagli attivisti non lascerebbe adito a dubbi circa il bilancio dell’attacco: oltre 1300 morti per i gruppi di opposizione, cifra rivista al ribasso – ma ugualmente significativa – dalle organizzazioni umanitarie presenti sul territorio.

Per quanto il dibattito sull’utilizzo delle armi non convenzionali in Siria sia in corso da mesi visto che già nel comunicato del 12 giugno del vice consigliere per la sicurezza nazionale USA Benjamin Rhodes si parlava di uso di armi chimiche su scala ridotta in almeno quattro occasioni – cosa che ha peraltro indotto Obama a firmare il decreto che ha consegnato alla CIA il compito di occuparsi del coordinamento dell’invio di armi ai ribelli –, l’episodio del 21 agosto ha posto la comunità internazionale di fronte alla necessità di dare un seguito al monito lanciato la scorsa estate (e nuovamente lo scorso giugno a pochi giorni dal G8 in Irlanda del Nord) sulla “red line” che il governo di Damasco non avrebbe dovuto oltrepassare e ha avviato il conto alla rovescia per un’operazione militare la cui approvazione è stata rinviata al Congresso USA. Questo tuttavia non si riunirà prima del 9 settembre, paventando così il rischio di un rinvio dell’attacco alle calende greche ed esponendo l’America, come dichiarato dallo stesso Assad, al “sarcasmo del mondo”. Eppure, neanche Obama è certo dell’uso delle armi chimiche nonostante l’assoluta fiducia riposta da Kerry nella colpevolezza di Assad e nell’altrettanta non responsabilità dei ribelli (e questo anche se anche l’Iran ha chiesto un’ispezione internazionale). D’altra parte, comunque, l’assunto su cui è nata la sua presidenza – ossia riparare agli errori del suo predecessore, svincolandosi dal fronte iracheno e da quello afghano e tener fede all’immagine pacifista accollatagli da un Nobel prima ancora che dall’opinione pubblica – deve indurre a non commettere nuovi passi falsi nella polveriera mediorientale.

Ma c’è qualcosa che va al di là del profilo personale del Presidente e che fa i conti sia con ritrosie interne sia con l’inaspettato schiaffo giunto da Londra: da un lato, infatti, le pressioni ricevute da oltre 200 deputati (democratici e repubblicani) di chiedere un voto sull’uso della forza in un momento in cui il gradimento interno dell’inquilino della Casa Bianca è sceso al 44% (segnale non positivo in vista delle elezioni mid-term del 2014, la raccolta fondi per la quale è già iniziata), dall’altro lo smacco politico subito dal Premier David Cameron i cui piani d’attacco (erano già state mobilitate le basi cipriote di Akrotiri e Dhekelia, oltre ad uno schieramento preventivo di una task force della Royal Navy) e la cui proposta di Risoluzione alle Nazioni Unite è stata rigettata dal Parlamento britannico. Viene così meno la fidata spalla destra delle campagne in Afghanistan, in Iraq e, da ultimo, in Libia. Ad ogni modo, se il Congresso americano darà il suo via libera, Obama ha rassicurato su una missione di breve durata – probabilmente due/tre giorni – e che non implicherà lo schieramento di truppe di terra.

Il ventaglio delle possibilità per gli Americani va così da raid affidati ai missili da crociera Tomahawk imbarcati sulle quattro cacciatorpediniere statunitensi classe Arleigh Burke e su un sottomarino britannico schierati nel Mediterraneo volti a colpire centri di comando e di intelligence di Damasco, alle incursioni con bombardieri con tecnologia “stealth” (come i B-2 Spirit) già sperimentate in Iraq nel 2003 e in Libia. Nel Golfo di Aden sono peraltro presenti due portaerei, la Nimitz e la Harry Truman. Se più remota appare la possibilità di istituire una no fly zone a causa della complessità e della pianificazione anche da parte di Giordania e Turchia (nonostante da mesi siano state rafforzate con batterie di missili Patriot e di F16), più concreto nel breve periodo appare il rafforzamento degli aiuti ai ribelli: dal 23 agosto il confine turco-siriano sarebbe attraversato da convogli che recherebbero tonnellate di armi e munizioni fornite ai ribelli da sauditi ed emirati del Golfo. A parte la guerra tecnologica condotta attraverso strumenti che paralizzerebbero le strumentazioni siriane (alla stregua di quanto avvenuto in Libia) con il rischio di episodi come quello del caccia F24 turco di giugno 2012, la formazione di una coalizione arabo-occidentale sul modello della coalition of the willing che si è incontrata ad Amman lo scorso 26 agosto, dietro la quale si muoverebbero con supporto operativo e di intelligence Stati Uniti e Paesi europei (per lo meno quelli favorevoli all’attacco), sembra in effetti l’opzione più realistica e praticabile anche in nome della vocazione del leading from behind. Sul fronte europeo, in effetti, fuori dai giochi la Gran Bretagna, solo la Francia di François Hollande (che ha già schierato la portaerei Charles De Gaulle e la fregata Chevalier Paul, oltre a servirsi della base di Al-Dhahra, negli EAU, da cui partono caccia Rafale e Mirage) resta realmente intenzionata a perseguire l’obiettivo bellico: fortemente contraria la Germania di Angela Merkel, ora concentrata sul rush finale della campagna elettorale, e sempre meno interventista anche l’Italia. Per il Ministro degli Esteri Bonino anche il placet dell’ONU potrebbe non essere sufficiente a garantire l’impegno italiano. Completamente assente l’Unione Europea, capace solo di dividersi all’inizio dell’estate sul tema del sollevamento dell’embargo alle armi per l’opposizione siriana.

Al posizionamento occidentale fa da contraltare quello dello storico alleato di Assad, la Russia, la cui preminenza non è visibile solo dalla richiesta di sostituzione (poi rigettata) del contingente ONU austriaco ritiratosi dopo l’attentato sul valico israelo-siriano di Quneitra (nel Golan), e non solo dalla discussa fornitura al regime di Assad di batterie anti-missili S-300 (o ancora di sofisticati missili da crociera Yakhont), ma anche dalla recente decisione di Vladimir Putin di tornare a posizionare per la prima volta dopo decenni la flotta Russian Pacific nel Mediterraneo in corrispondenza del porto siriano di Tartus. La task force – che al momento include la grande nave antisottomarino Severomorsk, la fregata Yaroslav Mudry, i rimorchiatori Altai e SB-921 e il tanker Lena delle Flotte Northern e Baltic, cosi come la nave per il trasporto delle truppe, la Azov dalla flotta del Mar Nero, e che potrebbe essere incrementata con sottomarini atomici come dichiarato dall’Ammiraglio Navale Viktor Chirkov, risponde evidentemente alla necessità di sostenere il proprio alleato (nonché di proteggere lo “sbocco russo” sul Mediterraneo), ma anche di fronteggiare il radicalismo islamico proveniente dal Caucaso settentrionale che secondo l’FSB russa agirebbe di fianco ai ribelli siriani e sarebbe finanziato dalle Monarchie del Golfo, in particolare dall’Arabia Saudita. E anche su Riyadh si potrebbe aprire un lungo capitolo di analisi, impegnata com’è a cercare guidare il fronte arabo contro il regime di Assad e contro il Qatar: ne è esempio la sostituzione di Hassan Hitto, sostenuto da Doha, da parte di Ahmad al Jarba, legato invece ai sauditi, nella guida della Coalizione Nazionale Siriana.

Mentre si attende dunque l’esito delle indagini condotte sul territorio dagli ispettori dell’ONU, il problema non resta tanto nel quesito strike no/strike si, quanto agli effetti che quest’ultimo potrà avere negli equilibri regionali già notevolmente intaccati dal conflitto: in primo luogo in Libano dove lo scorso 23 agosto alcune esplosioni contro moschee sunnite di Tripoli (città settentrionale segnata da mesi di scontri tra fazioni armate sunnite e alawite, nei quartieri di Bab al-Tabanneh – dove si sostiene l’opposizione siriana – e di Jabal Mohsen, abitato da sostenitori sciiti pro-Assad) hanno provocato 50 morti e oltre 500 feriti, diventando il peggior attentato dalla fine della guerra civile nel 1990. Già 8 giorni prima un’autobomba ha ucciso 27 persone in un quartiere nel sud di Beirut, roccaforte del movimento sciita Hezbollah, il quale negli ultimi due mesi ha dato un contributo decisivo alla riconquista di numerosi territori (Qusayr innanzitutto) e al lancio di nuove offensive da parte delle forze lealiste nella città di Homs e Aleppo (Operazione Tormenta nel Nord, che ha dato un duro colpo al gruppo ribelle Jabhat al-Nusra). Tra l’altro, poche ore prima dell’attentato di Tripoli, un raid aereo israeliano a sud della capitale libanese ha colpito la base del gruppo palestinese Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando Generale (Fplp-Cg) di Ahmad Jibril, sostenuto da Damasco, in risposta al lancio di quattro razzi avvenuti il giorno precedente dal Libano contro lo Stato ebraico. Proprio il governo Netanyahu, peraltro già preoccupato sul fronte meridionale per i fatti in Egitto, ha deciso di spostare due batterie antimissili iron-dome nel nord del Paese (nella città di Haifa) e nella capitale, oltre a lanciare esercitazioni missilistiche congiunte con Washington. Un atteggiamento/precauzione inevitabile anche alla luce delle dichiarazioni del vice capo di Stato maggiore dell’esercito iraniano, il generale Masoud Jazayeri, di una possibile ritorsione nei confronti di Tel Aviv. Anche se questa ipotesi non si dovesse verificare, essa rafforzerebbe comunque lo scontro e raffredderebbe l’apertura al dialogo dimostrata da Hassan Rouhani e dal suo Ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif.

Eppure, prima che il risiko siriano diventi un gioco a somma zero, un margine per la diplomazia potrebbe esserci ancora. Il G20 di San Pietroburgo in programmazione per il 5 e 6 settembre potrebbe essere l’occasione per Obama e Putin per trovare (in uno sforzo di dialogo costruttivo soprattutto da parte di Mosca) una via comune all’uscita dalla crisi siriana, o quanto meno, al cul de sac dentro il quale il Presidente USA è finito. Prima di arrivare a Capital Hill, un’ancora di salvataggio, in extremis, potrebbe giungere da uno straordinario Vertice “Friends of Syria” a Roma l’8 settembre, incontro che però la Farnesina ha nelle ultime ore smentito. Un fatto d’altra parte è certo: che guerra regionale (quale quella siriana ormai è) a parte, la maggiore attenzione dedicata all’impasse USA è sintomatica della loro perdita di peso specifico in area in cui nuovi soggetti testano e affinano le loro velleità internazionali. E in questo continuo esercizio la sensazione è che nessuno alla fine cerchi realmente lo scontro, perché l’opzione Assad sarebbe comunque preferibile a qualsiasi scenario difficile da prevedere. Restano così sullo sfondo le oltre 100mila vittime di una guerra civile che, armi chimiche o no, volge sempre più in favore di Assad che, oltre alla capacità di ricomporre intorno a sé con abili rimpasti un apparato politico inizialmente variamente defezionato, potrebbe avere dalla sua anche la definitiva spaccatura dei fronti di opposizione data la loro tendenza ad estremizzarsi: le armi giunte nelle loro mani potrebbero non essere sufficienti ad ottenere una vittoria, quella che davvero conta per il futuro del Paese, a livello politico.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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