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Siria, la linea del fronte

Creato il 28 giugno 2012 da Eurasia @eurasiarivista
Siria :::: Giacomo Gabellini :::: 28 giugno, 2012 :::: Email This Post   Print This Post Siria, la linea del fronte

In seguito all’abbattimento del caccia turco da parte della contraerea siriana, la Turchia si è appellata all’articolo 4 della NATO, il quale stabilisce che «Ciascun alleato può chiedere consultazioni quando ritiene minacciata la sua integrità territoriale, la sua indipendenza politica o la sua sicurezza»[1]. Tali “consultazioni” mirano con tutta evidenza a mettere in atto le contromisure conformi all’articolo 5, secondo cui un attacco diretto contro un paese membro va considerato come un’aggressione all’intera alleanza.

Il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu ha riconosciuto che il velivolo aveva violato lo spazio aereo siriano, prima di venire abbattuto dalla potente contraerea di cui dispone Bashar al-Assad.

Qualcosa di analogo accadde nel 1962, in piena crisi missilistica, quando un aereo da ricognizione U-2 prodotto dalla Lockheed Martin venne abbattuto mentre sorvolava Cuba. Allora il presidente John Fitzgerald Kennedy incassò il colpo malgrado i vertici delle forze armate ritenessero l’evento sufficiente per giustificare l’aggressione che, dopo il fallimento della Baia dei Porci, avrebbe provocato la definitiva rimozione di Fidel Castro dal “cortile di casa” di Washington.

Fare in modo che aerei militari sorvolino senza autorizzazione i cieli dei paesi che si trovano nell’occhio del ciclone costituisce il più elementare atto di provocazione, finalizzato a suscitare una reazione che funga da perfetto casus belli. In passato, di tale metodo operativo si sono avvalsi in maniera massiccia gli Stati Uniti, che fin dal 1898 intrapresero una peculiare campagna di azioni provocatorie e veri e propri auto-attentati volta a legittimare l’ingresso americano nei vari conflitti mondiali. Un filo rosso che, dalla detonazione che fece colare a picco la nave Maine – alla base della dichiarazione di guerra nei confronti della Spagna – passando per l’affondamento del transatlantico Lusitania da parte degli U-Boot tedeschi – che motivò l’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale – conduce all’incidente del Golfo del Tonkino – che determinò la Guerra del Vietnam.

Scegliendo di far violare lo spazio aereo siriano nel momento in cui la campagna eversiva nei confronti del paese è ai suoi massimi livelli, la Turchia si colloca palesemente sulla scia statunitense.

L’obiettivo perseguito dall’esecutivo turco guidato da Recep Tayyp Erdogan è quello di imporre Ankara quale perno dell’intera galassia dell’Islam sunnita, nell’ambito di un progetto pan-islamico che, attraverso il sostegno alle cosiddette “primavere arabe”, mira a promuovere il consolidamento dell’Islam politico nell’intera area geografica che si estende dal Marocco alla Penisola Arabica.

L’architetto di questo progetto è Fethullah Gulen, uno studioso musulmano che dalla sua residenza in Pennsylvania è in grado di esercitare una notevole influenza sulle scelte politiche del governo guidato dal primo ministro Recep Tayyp Erdogan. Il timore della deriva islamista auspicata da Gulen ha allarmato le forze armate – che fin dal 1952 (anno dell’adesione turca alla NATO) hanno garantito atlantismo e laicità dello Stato – e costituisce la ragione fondamentale che sta alla base del fallito colpo di Stato del febbraio 2010, che portò all’incarcerazione dell’ex generale Iker Basbug, del capo di stato maggiore dell’esercito Ergin Saygun, del Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica Ibrahim Firtina e del Capo di Stato Maggiore della marina Ozden Ornek. Tutti gli alti ufficiali in questioni erano connessi alla potente ed oscura setta kemalista Ergenekon, il pensatoio in cui vengono escogitati i piani “Martello” e “Gabbia”. Dalle indagini condotte su questa organizzazione emersero prove schiaccianti in relazione al coinvolgimento di generali in pensione, ammiragli in servizio e ufficiali di vario grado intenti a pianificare attentati (a moschee e monumenti in tutta la Turchia) e persino l’abbattimento di aerei civili. E probabile che Ergenekon costituisca il fondamento della lunga catena di colpi di Stato che per decenni hanno determinato la linea politica turca.

La preoccupazione delle forze armate è dovuta anche all’acredine “di facciata” nei ostentata da Erdogan confronti di Israele, specialmente per quanto riguarda la condotta tenuta dallo Stato ebraico nei confronti del popolo palestinese. Al World Economic Forum di Davos del 2009, Erdogan stigmatizzò pubblicamente il presidente israeliano Shimon Peres per l’efferatezza dell’operazione “Piombo Fuso” sferrata contro la Striscia di Gaza nel dicembre del 2008 e un anno dopo l’assalto al convoglio Freedom Flotilla provocò l’espulsione dell’ambasciatore israeliano e la sospensione dei contratti militari. Sul piano pratico, tuttavia, la Turchia ha ben presto riattivato tali contratti e mantenuto le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, alla luce di una convergenza di intenti che trova nella destabilizzazione della Siria il principale fattore di comunanza.

I progetti eversivi nei confronti della Siria orchestrati da Ankara mal si sposano con la dottrina geopolitica propugnata da Davutoglu, che individua l’avere “zero problemi coi vicini” quale obiettivo strategico fondamentale. In conformità a tale obiettivo, la Turchia aveva intensificato in maniera consistente le relazioni con la Russia (l’interscambio supera i 9 miliardi di euro) e riallacciato i rapporti con la Siria, per poi rinnegare il tutto ospitando il Consiglio Nazionale Transitorio siriano e supportando, sia economicamente che logisticamente, le frange eversive che penetrano in Siria dalla Libia, dal Libano e dall’intera galassia sunnita.

Se la Turchia cavalca la “tigre islamica” appoggiando le fazioni terroristiche che intendono rovesciare il governo di Damasco, la destabilizzazione della Siria rappresenta altresì un tassello fondamentale della strategia implementata dall’attuale governo israeliano, i cui obiettivi sono espressamente indicati nel Clean Break (un documento redatto nel 1996 da un gruppo di influenti analisti statunitensi come Richard Perle, David Wurmser, James Colbert, Douglas Faith, ecc. che entrarono poi a far parte del governo guidato da George Bush junior): rendere sicuro il confine settentrionale di Israele ed instaurare una strategia fondata sulla potenza militare. All’interno di tale documento si legge, infatti, che «La Siria sfida Israele sul suolo libanese. Un approccio efficace, con cui gli americani potrebbero simpatizzare, prevede che Israele acquisisca l’iniziativa strategica lungo i suoi confini settentrionali impegnando Hezbollah, Siria e Iran»[2]. Colpire le infrastrutture del Libano costituisce un aspetto essenziale di questo progetto, così come «Distogliere l’attenzione di Damasco facendo leva su elementi dell’opposizione libanese per intaccare il controllo siriano del Libano»[3].

In base alle direttive contenute in tale documento, Benjamin Netanyahu e Ariel Sharon intrapresero una politica estremamente muscolare incardinata sul concetto di “pace attraverso la forza”, che esclude aprioristicamente dal novero delle possibilità – pur assai flebili – la restituzione dei territori occupati e la distensione dei rapporti con le autorità palestinesi. La svolta ambita da Tel Aviv sarebbe dovuta scaturire dall’avvicinamento simbiotico di Israele agli Stati Uniti, dall’incremento della capacità persuasoria dell’Israel lobby e dall’imposizione di un nuovo “nomos della terra” in grado di legittimare eventuali interventi militari israeliani nella regione. L’obiettivo fondamentale rimase però quello, perseguito con ostinazione anche da Yitzhak Rabin e da Shimon Peres, di promuovere la formazione di un’alleanza strategica tra Israele, Turchia, Giordania ed Iraq finalizzata a isolare l’Iran e ad accerchiare la Siria in modo da sottrarre il Libano all’influenza di Damasco.

Non è quindi un caso che proprio nel 1996 (anno della pubblicazione del Clean Break) Israele scatenò l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro che provocarono la morte di numerosi civili oltre alla distruzione di case e infrastrutture. Il massiccio dispiegamento di forze disposto dal governo di Tel Aviv non si rivelò tuttavia sufficiente a sconfiggere la resistenza libanese guidata da Hezbollah, i cui miliziani, appresa la grande lezione di Sun Tzu – conoscere il nemico – e pertanto consci delle tattiche operative israeliane, anticiparono le mosse di Tsahal (l’esercito israeliano) e inflissero forti perdite mediante sofisticate tecniche di guerriglia.

Con l’ascesa di George Bush junior la politica estera condotta dagli Stati Uniti – già estremamente sbilanciata in senso filo-israeliano sotto l’egida di Bill Clinton – slittò ulteriormente in favore di Israele, contestualmente ai piani ideati dai principali esponenti del Project for a New American Century. Il fatto che un numero esorbitante di neoconservatori – Elliot Abrams, William ed Irving Kristol, Robert Kagan, John e Norman Podhoretz tanto per citarne disordinatamente alcuni – vanti origini ebraiche influì poi in maniera sensibile sull’evoluzione dei rapporti degli Stati Uniti con Israele.

Il famigerato Greater Middle East Project elaborato da questi analisti era visibilmente incardinato sui principi espressi nel Quadrennial Defense Review Report pubblicato nel settembre 2001 (e quindi escogitato ben prima dell’11 settembre 2001). «Le armate statunitensi – si legge all’interno del documento – devono garantire l’imposizione, sotto la supervisione del presidente, dei piani statunitensi a qualsiasi avversario, a prescindere dal suo status di Nazione o di entità non-nazionale, rovesciare il regime di uno Stato nemico od occupare un territorio straniero finché le finalità strategiche statunitensi non si state raggiunte»[4].

Sotto l’egida di Bush junior, gli Stati Uniti implementarono il Greater Middle East Project in conformità ai principi stabiliti all’interno del Quadrennial Defense Review Report, dapprima rinsaldando l’asse Washington-Tel Aviv in chiave anti-palestinese, in modo di concorrere all’affermazione di Israele al rango di potenza egemone della regione. Successivamente, riversarono benzina sul focolaio libanese promuovendo ed incoraggiando la sommossa anti-siriana scaturita dall’enigmatico attentato, datato 14 febbraio 2005 ed istantaneamente attribuito a Damasco – per via della vicinanza tra Bashar al-Assad e il presidente libanese Emile Lahoud (fresco beneficiario di un emendamento costituzionale atto a prolungarne il mandato di tre anni) – che stroncò la vita del popolarissimo Rafik Hariri, dimessosi da poco dall’incarico di primo ministro in segno di protesta contro la svolta filo-siriana imboccata dal proprio paese. La rivolta, prontamente ribattezzata come Rivoluzione dei Cedri, sortì il duplice risultato di costringere Bashar al-Assad a cedere alle fortissime pressioni statunitensi, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano e l’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese.

La Rivoluzione dei Cedri, coronata dall’ascesa di Siniora, seguì il medesimo schema – ispirato alle linee guida indicate dal filosofo Gene Sharp nel manuale che porta in suo nome e messo in atto attraverso il consueto nugolo di Organizzazioni Non Governative fianziate dal governo statunitense, dal Congresso e dal magnate George Soros – delle tante rivoluzioni colorate sorte nei paesi vicini alla Russia (Georgia, Ucraina, Kirghizistan) e, costringendo Assad a ritirare le proprie truppe dal territorio libanese, consentì ai gruppi wahhabiti e salafiti di riemergere e di approntare l’auspicata “guerra santa” combattuta a colpi di guerriglia e predicazione settaria. Questi movimenti si installarono nel nord del Libano, dove la maggioranza è sunnita, e nei campi palestinesi, approfittando delle divisioni politiche e della debolezza militare delle organizzazioni palestinesi. I jihadisti più attivi appartengono ai gruppi Sir El Dinniyeh, Fatah al-Islam, Jounoud al-Cham ed Ousbat al-Ansar e nel corso dell’intero mandato di Siniora effettuarono, indisturbati, numerose incursioni violente contro tutti i sostenitori del regime di Bashar al-Assad, come le popolazioni sciite o i militanti di Hezbollah. Alcuni di questi movimenti giunsero a varcare il confine siriano per bersagliare le truppe del governo baathista sul loro stesso territorio.

Non appena il ritiro delle forze siriane venne completato, Israele sferrò la poderosa offensiva contro il Libano meridionale volta a sradicare definitivamente Hezbollah, in modo da «Rendere sicuro il confine settentrionale», come prescrive il Clean Break. Sotto il sole bruciante dell’estate 2006, l’esercito israeliano rimase impantanato nelle sabbie mobili libanesi per via della strenua resistenza opposta da Hezbollah, che compromise ogni tentativo di invasione grazie anche al supporto siriano e, soprattutto, ad quantità considerevole di armi di fabbricazione iraniana di cui tanto la CIA quanto il Mossad ignoravano l’esistenza.

La vittoria di Hezbollah evidenziò la connivente passività del governo collaborazionista guidato da Siniora, che finì per perdere rapidamente tutti i vantaggi che aveva precedentemente ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima. L’appoggio alla resistenza libanese fornito dalla Siria ebbe inoltre l’inaspettata funzione di provocare un drastico ripensamento da parte del carismatico generale cristiano-maronita Michel Aoun, il quale ripudiò il proprio passato di fervente oppositore della Siria per schierarsi con il potente movimento sciita di Hezbollah, istituendo in tal modo una coalizione nazionalista filo-siriana forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele. Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, affermò «Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman»[5], riferendosi a Jeffrey Feltman, colui il quale ricopriva l’incarico di assistente al segretario di stato per il Medio Oriente.

Mentre il governo Siniora scricchiolava sotto il peso di numerose e clamorose inadeguatezze, si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome (discendente dell’omonimo Pierre Gemayel, fondatore del Partito Falangista Cristiano, i cui miliziani si erano resi responsabili dello spaventoso eccidio di palestinesi radunati nei campi profughi di Sabra e Chatila nel settembre del 1982, in seguito all’assassinio di Bashir Gemayel), in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano. La sua conclamata ostilità nei confronti della Siria orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa che avrebbe potuto spezzare l’intesa tra sciiti e cristiani venutasi da poco a creare. A suffragare la validità di questa pista va annoverato il fatto che il capo dei drusi Walid Jumblat, nel corso di una visita a Washington, sia stato il destinatario di massicce forniture di armi finalizzate alla formazione di un valido contrappeso militare alle soverchianti forze di Hezbollah.

La tenuta dell’alleanza tra Nasrallah e Aoun scompaginò i piani architettati da Stati Uniti ed Israele, ma la caduta di Siniora e il fallimento della Rivoluzione dei Cedri favorirono l’ascesa del candidato filo-occidentale e filo-saudita Saad Hariri (il figlio del presidente assassinato), il quale si oppose, dietro il pungolo statunitense ed israeliano, alle pressioni esercitate da Nasrallah e Aoun relative alla formazione di un fronte compatto di difesa dei membri di Hezbollah accusati dal Tribunale Speciale per il Libano (TSL) – istituito dalle Nazioni Unite e finanziato direttamente con fondi statunitensi –  di aver organizzato ed eseguito l’attentato a Rafik Hariri. La posizione assunta da Saad Hariri provocò le dimissioni di ben 11 ministri sciiti e cristiani e la conseguente caduta del governo di unità nazionale. Il fatto che l’incriminazione “a orologeria” degli esponenti del Partito di Dio sia stata inoltrata dalla procura del TSL – che rappresenta la continuazione giudiziaria della guerra – autorità giudiziarie libanesi proprio mentre il nuovo governo sorretto dal blocco “8 marzo”, che riunisce Hezbollah e il Partito Patriottico di Michel Aoun, andava insediandosi getta un’ombra fosca sulla futura stabilita del Libano, che rappresenta la sintesi micropolitica di tutte le tensioni che agitano l’intero scenario del Vicino e Medio Oriente.

L’obiettivo non dichiarato perseguito dagli Stati Uniti era quello di creare le condizioni feconde affinché la polveriera libanese potesse ancora una volta incendiarsi, in una guerra fratricida (sul modello iracheno) tra sciiti, sunniti, cristiani e drusi confacente agli interessi statunitensi ed israeliani. Questa geopolitica del caos messa in atto da Washington e Tel Aviv era ed è tuttora volta a rompere definitivamente il legame che salda Damasco con Beirut, e che costituisce una minaccia di prim’ordine per la realizzazione degli ambiziosi disegni escogitati dagli alti esponenti del movimento sionista. La convergenza di interessi tra Stati Uniti ed Israele a questo riguardo appare in tutta evidenza, nonostante i rapporti tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama siano ben più tiepidi rispetto a quelli instaurati con George Bush junior.

La Rivoluzione dei Cedri, fiorita sul cadavere di Rafik Hariri, e l’aggressione israeliana al Libano trovano quindi una perfetta collocazione strategica alla luce degli obiettivi indicati all’interno del Clean Break. L’obiettivo finale di questo ambizioso progetto era e rimane chiaramente quello di disarticolare il fronte nemico, rompendo l’alleanza tra Beirut, Damasco e Teheran all’altezza della Siria, attraverso il riciclo del “modello salvadoregno” elaborato negli anni ’80 sotto la supervisione di John Negroponte, che aveva favorito la proliferazione di numerosi squadroni della morte capaci di disseminare di stragi gran parte dell’America centrale (Honduras, Nicaragua, Salvador).

Il nodo cruciale dell’intera vicenda viene tuttavia indicato dall’ex direttore del Mossad Efraim Halevy, il quale osserva che «Assad deve dimettersi. Ma per Israele, la questione cruciale non è se cade, ma se la presenza iraniana in Siria sopravviverà al suo governo. Recidere il laccio che lega l’Iran alla Siria è essenziale per la sicurezza di Israele. E il rovesciamento di Assad deve comportare tassativamente la fine dell’egemonia iraniana sulla Siria. Il mancato raggiungimento di questo vitale obiettivo priverebbe la caduta di Assad di ogni significato»[6]. Per questa ragione, «Con la caduta del regime l’intero equilibrio delle forze nella regione subirebbe un cambiamento epocale. Il terrorismo supportato dall’Iran verrebbe visibilmente contenuto; Hezbollah perderebbe il suo fondamentale canale siriano verso l’Iran e il Libano potrebbe tornare ad una normalità a lungo dimenticata, i combattenti di Hamas a Gaza si vedrebbero costretti a pianificare un futuro senza armi ed addestramento iraniani; e i cittadini iraniani potrebbero, una volta ancora, sollevarsi contro il regime che ha inflitto loro tali dolori e tante sofferenze».

Al netto della consueta retorica a buon mercato, il nocciolo della questione sollevata da Halevy emerge con estrema chiarezza. Per appoggiare le posizioni oltranziste assunte dai più ferventi interventisti, Israele deve prima assicurarsi che la caduta del regime di Bashar al-Assad comporti la rottura del legame che unisce Damasco a Beirut. Ciò provocherebbe il conseguente isolamento di Hezbollah, capitalizzato il quale Tel Aviv potrebbe tentare ancora una volta di regolare i conti con la resistenza libanese. L’Iran subirebbe un forte indebolimento dovuto alla brusca limitazione della propria egemonia areale e gli Stati Uniti potrebbero dedicarsi alla messa in atto del “Piano Biden”, che prevede la balcanizzazione dell’Iraq in tre entità (una sciita, una sunnita e una curda) che lascino le cospicue minoranze residue in balia di un settarismo istituzionalizzato.

La tenuta dell’alleanza sciita potrebbe, viceversa, cementare l’unità irachena garantita dal governo alleato guidato dal premier sciita Nouri al-Maliki, che Stati Uniti, Israele e petro-monarchie del Golfo cercano invece  di indebolire attraverso il sostegno al vicepresidente sunnita Tariq al-Hashemi su cui pende un mandato di arresto per supporto al terrorismo emesso dall’Interpool su richiesta delle autorità di Bagdad.

A questo proposito, l’analista Mahdi Darius Nazemroaya sottolinea che «Se l’Iraq si allineasse completamente con Teheran e Damasco, allora la Turchia si vedrebbe costretta a cambiare la propria posizione. Il commercio turco subirebbe un forte rallentamento e andrebbe a formarsi una saldatura intorno alla Turchia che va dall’Iran all’Iraq alla Siria. Ciò potrebbe tagliare le rotte terrestri che collegano la Turchia con il Nord Africa, la Giordania, la Penisola Arabica, l’Asia centrale, il Pakistan, l’India e l’Asia orientale. Insieme all’Armenia, Teheran, Baghdad e Damasco potrebbero erigere un muro intorno alla Turchia. Le uniche frontiere aperte verso la Turchia sarebbero la Grecia, la Bulgaria e la Georgia, che potrebbe essere tagliata fuori dalla Federazione Russa»[7].

Il fatto che l’Iraq sembri destinato a compiere questo allineamento, aderendo al cosiddetto “asse della resistenza”, spinge gli Stati Uniti ed Israele ad accelerare i tempi per l’implementazione dell’ambizioso progetto di contrasto al fronte della resistenza, in cui le monarchie riunite del Consiglio per la Cooperazione del Golfo sono chiamate a svolgere il “lavoro sporco” come il “procurato” voltafaccia di Hamas.

I primi segnali di svolta da parte di Hamas si materializzarono nell’ottobre 2011, quando il governo israeliano accettò di scarcerare qualcosa come 1.027 prigionieri palestinesi in cambio del caporale di Tsahal Gilad Shalit, in ostaggio dal 2006. Ciò accadde nonostante Khaled Meshaal, uno dei principali esponenti di Hamas, abbia precedentemente fornito numerose rassicurazioni relative al fatto che nessun accordo con le autorità di Tel Aviv sarebbe stato raggiunto qualora il rilascio del popolarissimo Marwan Barghouti, il più alto rappresentante del braccio armato di al-Fatah che sconta cinque ergastoli e che da anni esorta i propri compatrioti alla resistenza armata contro Israele, non figurasse tra le condizioni fondamentali. Il fatto che Barghouti rimanga recluso nelle carceri israeliane e che gran parte dei palestinesi scambiati con Shalit militassero tra le fila di Hamas è assai eloquente rispetto all’intera faccenda. A comprovare la svolta intrapresa da Hamas, si verifica poi la repentina distensione con la Giordania (alleata degli Stati Uniti), che porta all’archiviazione dell’immane massacro di rifugiati palestinesi (il famoso “Settembre Nero”) ordinato da Re Hussein nel 1970, nel corso della visita di Meshaal presso la corte reale di Amman grazie alla mediazione del Principe ereditario del Qatar.

Verso l’inizio di marzo, l’aviazione israeliana compì l’ennesima serie di raid sulla striscia di Gaza provocando la morte di 14 miliziani palestinesi appartenenti alle fila della Jihad islamica e dei Comitati di Resistenza Popolare Zuhir al-Qaisi. Significativamente, gli obiettivi principali dell’attacco non erano più i membri dell’unica forza capace di esercitare un controllo diretto sul territorio, ovvero Hamas, ma i miliziani aderenti a gruppi armati di minore rilevanza. Conducendo in porto la trattativa relativa al rilascio del soldato Shalit nel mese di ottobre, peraltro, Netanyahu riconobbe esplicitamente credibilità ad Hamas. E lo fece poche settimane dopo che Abu Mazen avesse inoltrato alle Nazioni Unite la richiesta relativa al riconoscimento della Palestina entro i confini del 1967 (violati da Israele nel corso della Guerra dei Sei Giorni). Questo tassello costituisce pertanto una parte integrante della pluridecennale strategia israeliana orientata a scongiurare l’internazionalizzazione di quella che viene eufemisticamente definita “questione palestinese”, in vista del suo contenimento entro lo squilibrato ambito bilaterale garantito dalla faziosa supervisione statunitense.

Lo scambio di prigionieri concordato tra Israele ed Hamas potrebbe essere considerato l’altra faccia (diplomatica) della medaglia rispetto all’operazione “Piombo Fuso” sferrata il 27 dicembre 2008, poiché l’obiettivo strategico comune ad entrambe consiste nell’indebolimento dell’alleanza tra al-Fatah (che controlla la Cisgiordania) ed Hamas (che controlla la striscia di Gaza e che, va ricordato, nacque con il sostegno diretto di Israele che intendeva indebolire i nazionalisti, i quali facevano capo a Yasser Arafat), al fine di dividere i palestinesi per evitare la formazione di una solida e compatta classe dirigente.

Nel caso specifico, l’inedita convergenza di intenti, in senso anti-ghddafiano e anti-baathista, venutasi a creare tra l’Emirato del Qatar (sunnita), la potente Fratellanza Musulmana (sunnita) di Egitto, Siria, Giordania e Tunisia, ed Hamas (sunnita, ispirato alla Fratellanza Musulmana ma alleato storico della Siria di Bashar al-Assad e degli sciiti di Hezbollah) si staglia sullo sfondo di un maestoso rimescolamento di carte orchestrato dagli Stati Uniti. Attraverso la strumentalizzazione (e la manipolazione) delle rivolte che hanno scosso il Maghreb e il Vicino e Medio Oriente, Washington ha modo di capitalizzare un avvicendamento al vertice dell’intera galassia araba tra gli uscenti referenti storici interni alla Lega Araba e le petro-monarchie sunnite del Golfo Persico (Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Oman) riunite nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Con la caduta di Hosni Mubarak queste monarchie sunnite hanno acquisito, assieme alla Fratellanza Musulmana, un notevole peso geostrategico. Ciò ha portato gli Stati Uniti ad assegnare all’Emiro al-Thani, a Re Abdullah e – pur in netto subordine – al telepredicatore Yousuf al-Qaradawi (le cui fatwe hanno preso di mira sia Muhammar Gheddafi sia Bashar al-Assad), un ruolo fondamentale nell’ambito del piano che mira all’isolamento del regime siriano in carica e, più in generale, al contrasto dell’avanzata sciita incardinata sulla Repubblica Islamica dell’Iran.

L’opposizione tra l’“asse della resistenza” e le petro-monarchie del Golfo si configura come uno scontro colossale interno all’intera galassia araba tra gli eredi del nazionalismo e del socialismo da un lato e i regimi islamici più reazionari dall’altro. I regimi laici che hanno preso spunto dalle teorie di Michel Aflaq, dall’esperienza storica di Jamal Nasser e dei regimi socialisti di impronta nazionalista o marxista hanno elaborato piani strategici finalizzati a garantire un’autonomia nazionale – sia politica che economica – fondata sul controllo diretto delle ricchezze nazionali da parte dello Stato, in modo da mantenere tassi ridotti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi e gasiferi. Il loro obiettivo era quello di calmierare l’offerta internazionale per ottenere elevati profitti dalla vendita del greggio agli importatori occidentali. In questo modo avrebbero accumulato fondi sufficienti da investire in processi di scolarizzazione e di ammodernamento delle infrastrutture che avrebbero garantito la formazione di sistemi economici non completamente dipendenti dalla vendita degli idrocarburi.

Le monarchie del Golfo Persico hanno invece rinunciato alle loro sovranità nazionali in ottemperanza ad un particolare rapporto geopolitico che le vincola alla subordinazione all’apparato finanziario anglo-americano. Ciò impegna Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Oman e Bahrein ad interpretare una politica energetica di segno opposto a quella propugnata dai governi nazionalisti e socialisti. I petro-monarchi non ambiscono ad affrancarsi dal ruolo di vassalli, ma si limitano ad assecondare le necessità geostrategiche statunitensi mantenendo alti i livelli di sfruttamento dei giacimenti di cui dispongono in cambio di ingenti profitti che vengono poi investiti in azioni quotate alle Borse di Londra e New York. Questo processo a ciclo continuo salda il legame delle petro-monarchie con il capitale occidentale, garantisce ai vari Re, Emiri e Sceicchi di accumulare ricchezze incalcolabili e mette ai ripari i loro sistemi feudali dalle brame “umanitarie” che hanno provocato la devastazione di paesi renitenti a rinunciare alla propria sovranità come la Libia.

Contro le varie declinazioni arabe, persiane e pakistane dei modelli socio-politici ispirati al nasserismo, al marxismo e al nazionalismo gli Stati Uniti e i loro alleati hanno intrapreso una “lunga marcia” di logoramento fin dai primi anni ‘50. Nel 1953 il primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq, che aveva nazionalizzato le compagnie petrolifere operanti nel suo paese, fu deposto in seguito ad un colpo di Stato perpetrato da alcuni generali dell’esercito sostenuti da Stati Uniti e Gran Bretagna e rimpiazzato con il fido Shah Reza Pahlevi. Nel 1965, in Indonesia, la CIA sostenne e finanziò il golpe effettuato dal generale Suharto e dagli integralisti islamici, che pose fine alla presidenza di Sukarno, alleato della Cina di Mao Tze Tung. Sotto l’egida di Suharto, l’esercito perpetrò una sanguinosa epurazione che portò all’assassinio di oltre un milione di membri del partito comunista locale (PKI). Nel 1977 il primo ministro pakistano, il nazionalista Ali Bhutto, fu deposto (e impiccato due anni dopo) in seguito ad un colpo di Stato appoggiato dall’intelligence statunitense e messo in atto dal generale Muhammad Zia ul-Haq, che promosse l’islamizzazione della società. E’ venuto quindi il turno di Saddam Hussein nel 2003 e di Muhammar Gheddafi nel 2011.

Non è quindi un caso che la Siria si trovi attualmente al centro del mirino, assieme ai paesi membri della cintura sciita che propugnano politiche sovraniste estremamente invise agli Stati Uniti e ai loro alleati. Essa rappresenta la linea avanzata del fronte, mentre la Repubblica Islamica dell’Iran e la resistenza libanese guidata da Hezbollah costituiscono le retrovie. Il casus belli sottoposto dalla Turchia agli altri paesi membri della NATO è volto a legittimare l’opzione militare nei confronti della Siria aggirando il banco di prova rappresentato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove Cina e Russia eserciterebbero sicuramente il diritto di veto. E’ tuttavia fortemente improbabile che la NATO decida di impegnarsi in un ulteriore conflitto, in particolare alla luce del micidiale sistema di difesa aerea (messo a punto alla Russia) di cui dispone Bashar al-Assad e della decadenza dell’Alleanza stessa. Le spese sostenute nel 2011 dai 28 stati membri della NATO ammontano a 1.038 miliardi di dollari. Una cifra equivalente al 60% della spesa militare mondiale che, integrata con altre voci di carattere militare, copre i due terzi della spesa militare planetaria. Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, la spesa statunitense è passata dal 50 al 70% circa della spesa complessiva, mentre quella europea è progressivamente calata. Per questa ragione il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen ha evidenziato il fatto che qualora il divario di capacità militari tra le due sponde dell’Atlantico dovesse allargarsi ulteriormente, «Rischiamo di avere, a oltre vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, un’Europa debole e divisa»[8]. E’ quindi altamente probabile che l’ipotesi relativa all’aggressione diretta verrà accantonata in favore di un consistente rafforzamento del supporto alle fazioni ribelli, in conformità al “modello salvadoregno” già sperimentato contro la Libia di Muhammar Gheddafi, che tuttavia Hafez al-Assad dimostrò di saper gestire nel 1982, quando le forze governative schiacciarono i movimenti salafiti e diedero vita ad una vera e propria caccia all’uomo nei confronti dei Fratelli Musulmani asserragliati nella città di Hama, provocando, nella sola città di Hama, centinaia di morti. La situazione venne tuttavia normalizzata e la Siria tornò ad essere l’esempio di pacifica convivenza inter-etnica ed inter-religiosa. Per questa ragione Bashar al-Assad sembra collocarsi nel solco tracciato da suo padre Hafez, conducendo con altrettanta tenacia i movimenti responsabili della destabilizzazione siriana.

Nell’arco di pochi mesi si è delineato uno scenario di distruzioni, massacri e di desolazione generale paragonabile a quello che contraddistinse la guerra civile in Algeria degli anni ‘90. L’analogia è inoltre rafforzata dal fatto che sia la Siria che l’Algeria sono i paesi-cardine del nazionalismo arabo, accomunati dall’esser stati guidati entrambi da governi politico-militari (Hafez al-Assad in Siria e Ahmed Ben Bella in Algeria) originati dalle guerre di liberazione contro la Francia coloniale. Ma il più evidente minimo comun denominatore tra i due è costituito dalla lotta ad un terrorismo che si richiama alla medesima matrice. I jihadisti algerini erano veterani dell’Afghanistan che avevano combattuto contro le truppe sovietiche, come i jihadisti che stanno devastando la Siria sono reduci dei fronti iracheno, afghano e libico. Combattenti di numerose nazionalità, usufruendo della connivenza di Amman, ricevono armi ed addestramento militare dalle forze statunitensi e NATO presso i campi del Kosovo (con la connivenza dell’UCK di Hashim Thaci), la città turca di Hakkari e lungo i confini siriani della Giordania.

L’Algeria ha trovato un pur precario equilibrio grazie ad un processo di riconciliazione nazionale reso possibile dall’eminente figura di Ben Bella, deceduto lo scorso aprile. Difficile dire se la Siria riuscirà a fare altrettanto.


[1] NATO, testo del Trattato (Washington, 4 aprile 1949).

[2] The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm.

[3] Ibidem.

[4] Dipartimento della Difesa, Quadrennial Defense Review Report.

[5] “L’Orient le Jour”, 20 novembre 2006.

[6] “The New York Times”, 7 febbraio 2012.

[7] Mahdi Darius Nazemroaya, The American-Iranian Cold War in the Middle East and the Threat of A Broader War,

http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=28439.

[8] “Il Manifesto”, 20 maggio 2011.

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