di Maria Serra
Potrà così partire la missione dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW) che potrà avere accesso a qualsiasi altro sito identificato da uno Stato e non soltanto – si legge nel comunicato dell’ente – ai depositi di stoccaggio già dichiarati da Damasco. Su questo punto, tra l’altro, l’ONU è già attiva con ulteriori indagini che starebbero accertando l’utilizzo di armi chimiche in almeno altri tre attacchi dopo quello del 21 di agosto nel Ghouta Orientale (a Bahhariya, a Jobar e ad Ashrafieh Sahnaya). Il rispetto dei dettami dell’OPCW e del Consiglio di Sicurezza, con un smantellamento che dovrà avvenire entro la prima metà del 2014, verrà verificato su base regolare dopo i primi 30 giorni dall’adozione della Risoluzione e quindi una volta al mese. Quanto all’aspetto tecnico sulla dismissione dell’arsenale, i Paesi europei si sono dichiarati favorevoli ad offrire il proprio supporto: il Ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha dichiarato nel corso della 68esima Assemblea Generale dell’ONU che la Germania è pronta a dare il proprio contributo logistico e finanziario; anche l’Italia si è detta disponibile a mettere a disposizione velivoli militari per il trasporto dall’Olanda in Siria di materiali ed esperti internazionali di armi chimiche come richiesto dal Direttore Generale dell’OPCW, Ahmet Uzumcu.
Un punto più delicato, su cui tuttavia l’ONU non riuscirà probabilmente ad avere la stessa incisività, resta quello della soluzione reale del conflitto sul campo. Ribelli e lealisti continuano a combattere e, solo nell’ultimo fine settimana, a Rankus, a 30 Km dalla capitale, un’autobomba fatta esplodere all’uscita dei fedeli da una moschea ha causato la morte di almeno 30 persone; raid delle forze di Assad avrebbero peraltro bombardato una scuola superiore a Raqqa, uccidendo 12 persone.
Ai paragrafi 16 e 17 il documento fa pertanto riferimento ad una transizione politica in accordo al comunicato della Conferenza di Ginevra del 30 giugno del 2012 che stabilisce una serie di passaggi chiave che iniziano con la costituzione di organi di governo transitori (affidati magari, come più voci sostengono, ad Ali Habib Mahmud, ex influente Ministro della Difesa che ha defezionato e che è fuggito in Turchia) capaci di esercitare pieni poteri esecutivi e che potrebbero includere membri dell’attuale governo, delle opposizioni e di altri gruppi sulla base di un accordo comune. Su questo punto, d’altra parte, Damasco è stata chiara: il Ministro degli Esteri Walid al-Moallem ha dichiarato che il suo governo non accetterà alcun piano di transizione che escluda Assad, nemmeno se questa proposta nasce in seno alla Conferenza di Ginevra 2. Quest’ultima è stato esplicitamente richiesto dal Consiglio di Sicurezza che si tenga in tempi brevi (Ban Ki Moon ha dichiarato che punta ad organizzarla per la metà di novembre), che sia effettivamente rappresentativa del popolo siriano ed impegnata al raggiungimento della stabilità e della riconciliazione. Far sedere le opposizioni (individuando innanzitutto quali) al tavolo delle trattative non sarà però ora cosa facile.
Il blocco anti-Assad, infatti, non è mai stato monolitico e questa stessa frammentazione – per un verso o per l’altro lasciata crescere – non ha di certo contribuito alla soluzione dell’impasse siriana tanto sul piano politico tanto su quello militare, ma anzi ha aiutato il Presidente a ricompattare intorno a sé (grazie ad una serie di abili rimpasti, l’ultimo dei quali alla fine di agosto) un establishment che aveva dato più di qualche segnale di scricchiolio. La Coalizione Nazionale Siriana (CNS) – sorta nel novembre 2012 su spinta congiunta di Stati Uniti e Qatar con lo scopo di creare una realtà maggiormente inclusiva delle istanze di opposizione (cosa, questa, avvenuta solo in parte essendo rimasti esclusi sia il gruppo laico e pacifista del Comitato nazionale di Coordinamento per il Cambiamento democratico sia i principali partiti curdi [1]) – pur essendo riuscita a farsi riconoscere nel mese di febbraio dai Paesi sostenitori dei ribelli come unico rappresentante legittimo del popolo siriano, sta pagando a caro prezzo la spaccatura tra l’ala composta dai Fratelli Musulmani siriani e dai loro alleati islamismi (sostenuti soprattutto da Turchia e Qatar) e quella più vicina alle forze più laiche sponsorizzate dall’Arabia Saudita, specchio della contrapposta visione e difesa dei propri interessi strategici in un contesto mediorientale in forte cambiamento. Ed è proprio un uomo di fiducia di Ryadh, Ahmed al-Jarba, a guidare il CNS e ad auspicare di poter dettare le condizioni dell’opposizione a Ginevra 2 isolando il composito fronte estremista che, come dichiarato dallo stesso Jarba, è stato “volutamente alimentato dal regime nel tentativo di trasformare la rivoluzione in un conflitto settario”.
Un Report dell’IHS Jane’s – società d’intelligence e di analisi in materia di Sicurezza e Difesa – riportato anche dal Telegraph evidenzia come (a parte i combattenti dell’Esercito Libero Siriano/ELS di Salim Idriss appoggiati dall’Occidente) la metà dei ribelli dell’opposizione appartiene a gruppi jihadisti o dell’Islam radicale (tra cui il gruppo Jabaht al-Nusra/Fronte di Sostegno per il Popolo della Siria gioca un ruolo di primo piano) importati da fuori della Siria: almeno 100.000 combattenti appartenenti a 1000 bande diverse a fronte di solo 30.000 moderati. Questi ultimi potrebbero essere ulteriormente indeboliti dall’assai recente (24 settembre) adesione di tredici gruppi di ribelli (tra cui brigate fuoriuscite dall’ELS, lo stesso Fronte al-Nusra, i salafiti di Ahrar al-Sham, quelli di Liwa al Tawhid – la brigata attiva ad Aleppo – ma non lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante – l’ala qaedista irachena) all”Alleanza Islamica” in opposizione alla leadership del CNS. A guidare la nuova entità dovrebbe essere Sheikh Mohammed Zahran Alloush (fondatore della milizia islamista Liwa al-Islam, che opera soprattutto nelle zone di Ghouta e Douma a est di Damasco) con l’obiettivo nemmeno tanto velato di formare un Esercito Islamico in aperto contrasto con l’ELS.
L’opposizione siriana è dunque una galassia estremamente complessa e litigiosa che, se finora ha posto gli attori esterni (e soprattutto quelli arabi e occidentali) a chiedersi nelle mani di chi finivano le armi e il relativo supporto finanziario che venivano inviati, ora pone le stesse cancellerie dinnanzi alla difficoltà di scegliere un interlocutore affidabile (oltre che rappresentativo) al tavolo della Conferenza di pace. Se da un lato il dettato di Assad (ossia non trattare con nessun gruppo armato) “agevola” la diplomazia occidentale, dall’altro costituisce un grosso ostacolo all’impianto negoziale e all’individuazione di una strada per la pacificazione. Raggiunto un accordo sul disarmo chimico è evidente che nessun attore coinvolto – eccetto naturalmente Assad – ha la minima risposta ad un quesito che la Conferenza internazionale ora più che mai pone con insistenza: a chi andrà la Siria dopo Assad?
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
[1] Tuttavia lo scorso 4 settembre CNS e il Consiglio Nazionale Curdo (KNC), guidato da Abdel Hakim Bashar, hanno firmato ad Istanbul un accordo in 16 articoli che ha portato lo stesso Bashar alla sua nomina quale vice-presidente della CNS e dell’entità curda. Tuttavia il leader del Partito d’Unione Democratica curda (PYD), Salih Muslim, ha dichiarato di rifiutare qualsiasi accordo che non sia firmato dal Consiglio Supremo Curdo (DBK).
Share on Tumblr