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Sisma un anno dopo: il prezzo amaro della rinascita

Creato il 20 maggio 2013 da Albertocapece

terremoto-forme-regione-emilia-romagnaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Dopo sisma? danni per 12 miliardi di euro, i circa 14 mila edifici e  33 mila abitazioni  inagibili, per un totale di 43 mila persone sfollate? Fabbriche e capannoni crollati? e le banche che sei mesi dopo esigono le rate del mutuo? E la prima busta paga del 2013 vuota?

Beh, sono cazzi vostri.

Avevamo riassunto così, l’anno scorso, l’approccio adottato dal Governo in occasione del terremoto in Emilia:  né ricostruzione, né costruzione, invito perentorio a esercitare l’antica arte di arrangiarsi, raccomandazione ferma ad assicurarsi che la Protezione civile proprio allora effettuò una verifica dell’efficacia del suo nuovo assetto, con le dimissioni dagli obblighi di risarcimento, una svelta visitina pastorale del  premier in carica, niente rutilanti smart city acchiappa citrulli e anche i volonterosi e compassionevoli sms dovevano essere indirizzati a pragmatiche garanzie bancarie. Lo slogan  era quello ancora vigente, non c’è una lira, porteremo la giustificazione scritta a Bruxelles, ma intanto cavatevela da soli senza fare la lagna, insomma non ci facciamo riconoscere.

Oggi puntualmente la stampa dà conto che l’operazione “cazzi vostri” è  riuscita: “ la ricostruzione è iniziata immediatamente dopo il sisma, nel solco dell’operoso spirito emiliano. Grazie al lavoro della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco, migliaia di persone sono state alloggiate in campi e strutture apposite”.

E ancora: “Grazie alla solidarietà dell’Italia intera e a diverse iniziative (come gli SMS solidali o il concerto di Campovolo), sono stati raccolti 37 milioni di euro. Grazie ai finanziamenti pubblici (2,5 miliardi dallo Stato, 670 milioni dall’Unione europea, 6 miliardi dalla Cassa Depositi e Prestiti per famiglie e imprese a fondo perduto e 6 miliardi di prestiti dalla Cassa per il pagamento di imposte e contributi) l’Emilia ha iniziato la ripresa. Al momento, delle 22 zone rosse create dal sisma nei centri storici, ben 16 hanno già riaperto completamente grazie a interventi provvisionali che hanno messo in sicurezza gli edifici. Oltre 5.000 famiglie sono rientrate nelle proprie case, 10.000 usufruiscono di un contributo di autonoma sistemazione, mentre 540 sono in affitto in alloggi individuati dai comuni con costi a carico dei fondi del terremoto. Circa 2.600 persone vivono in moduli prefabbricati, mentre nessuno vive più nei campi della Protezione Civile, che sono stati smantellati”.

Manca solo a far da contrappunto all’encomio dell’operoso spirito di iniziativa emiliano, qualche allusione alle rovine secolari di Messina, manca solo il confronto tra l’Aquila e il Friuli, manca solo  – ma verrà, statene certi – quel tanto di infamia che piace all’ideologia di regime, fatta di contrapposizioni, conflittualità,  differenze alimentate perché  per ridurre un popolo alla servitù del bisogno, dimentico di solidarietà e coesione, fanno bene le inimicizie, la gara crudele, l’antagonismo implacabile, con l’effetto di nutrire al diffidenza, l’animosità, la divisione. E non fa bene ai paragoni spietati ricordare i fiumi di denaro intercettati dalla corruzione e mai arrivati a destinazione, la mobilitazione finanziaria gestita da Zamberletti – che a essere meglio di Bertolaso ci vuol poco, gli aiuti pubblici di uno Stato non ancora totalmente espropriato di soldi e di iniziativa, oltre che di sovranità, intaccata e impoverita per legge.

È indubitabile la fierezza degli emiliani, è indiscutibile il loro orgoglio, è inconfutabile il loro dinamismo. Le immagini di fabbriche che hanno ripreso il lavoro, di scuole dove si fa lezione, di esercizi riaperti dovrebbe essere lo spot di una ripresa italiana possibile. E una tremenda invettiva silenziosa contro il ceto dirigente e la classe politica “centrale”,  che conferma l’atroce sospetto che la migliore politica e la più efficace amministrazione statale siano quelle invisibili, per non dire inesistenti. Ma anche la dimostrazione simbolica che ancora, sepolta sotto coltri di accidia, anestetizzata dal malessere, esiste ancora e è capace di risuscitare una capacità di riscatto, di onore, di dignità di popolo.

Ma a che prezzo? Oggi tra le orgogliose immagini della “rinascita”,  ce n’era una allegorica, quella torre  che avevamo visto spezzarsi in due davanti ai nostro occhi come colpita da un fulmine, e una parte sgretolarsi rovinosamente,  con quell’orologio fermo all’ora della terra che trema e si ribella, come quell’altro orologio di Bologna a segnare il tempo della morte.

Quel che resta della torre di Finale Emilia è là, fissato come quell’ora fatale, recintato, come un monumento della catastrofe, un sigillo sull’apocalisse. Perché la gente si è rialzata, i comuni hanno riaperto le scuole, gli artigiani hanno messo su le botteghe anche per strada. Ma lo stato ha abdicato, le sovrintendenze hanno abiurato, i cittadini hanno dovuto rinunciare alle loro memorie, fatte di palazzi comunali, chiese, monumenti, dimore storiche, quei luoghi   della socialità dove di ricorda insieme, si ragione, ci si incontra, si scambiano sguardi, parole e sorrisi. Ce la farà l’Emilia, saranno le fabbriche, le scuole, i negozi, i posti dello stare insieme, ma la ferita alla memoria, all’identità di popolo, alla cittadinanza, sanguina.


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