Eccoci qua a dire la nostra sul libro di Valentina Furlanetto, l’Industria della Carità, in cui questo blog è molto presente. Partiamo dalle reazioni. Come è d’uso in Italia quando si tocca qualche sistema inefficiente e privilegiato (politica, banche, sindacati, etc.) scatta la difesa a riccio, la negazione di ogni problema, il tentativo di generalizzare, la spaccatura del cappello in quattro per affogare le critiche. Mai nessuna risposta sul merito delle questioni, ne abbiamo avuto esempio anche in questo blog (qui, qui). A parte rare eccezioni.
L’esempio è l’organo ufficiale del sistema ONG\ONLUS, cioè il magazine Vita (finanziato dalle stesse). Hanno tirato fuori addirittura il libro Lord of Poverty e altre citazioni per mettere in imbarazzo la Furlanetto, che, come giornalista, ha cercato di raccontare qualche fatto dell’industria dell’assistenza (come preferisco chiamarla) in modo leggibile, senza eccessive citazioni e numeri. Fra l’altro Lord of Poverty, che lessi all’inizio degli anni ’80, già descriveva l’inefficienza e la corruzione nell’”international aid business”. Da allora sono stati pubblicati decine di altri studi, libri (molti e aggiornati sono in questo blog in DOCS) per dire le stesse cose della vilipesa Furlanetto, sicuramente più dettagliate, con numeri, analisi, ma indigeste come lettura. Malgrado questa massa di studi, critiche (ultime quelle di questi giorni a Davos, dove c’erano anche le ONG per cercare di fare affari con finanza e multinazionali), non solo di giornalisti, ma di operatori, studiosi, università in Italia poco è cambiato, il sistema si è sempre autodifeso. In altri paesi, almeno, sono stati messi in piedi meccanismi formali di controllo ma in Italia niente; il sistema non ha mai voluto che i finanziamenti statali (per fortuna ora esauriti) fossero dati in base a gare pubbliche, che fossero attivati enti indipendenti di controllo su qualità e costi dei progetti, che si definissero criteri speciali per i bilanci delle ONLUS più grosse, per esempio.
Non si tratta di discutere se è giusto essere solidali, combattere le diseguaglianze (più che la povertà), fare i bravi, come qualche trombone scrive per contestare i contenuti generali del libro ma di capire se il sistema italiano delle Ong\onlus (in parte finanziato con soldi pubblici) funziona, cioè fa quello per cui donatori e tax payers investono\donano cioè favorire tramite progetti e programmi la diminuzione delle diseguaglianze. Chiaro che, come in ogni sistema, ci sono parti che funzionano meglio, operatori seri ed impegnati, gente appassionata; questo dovrebbe essere la regola e non l’eccezione. Fra i critici del libro, troviamo burocrati-politici come stefano zamagli ex capo dell’inutile Agenzia delle ONLUS, legato alla Compagnia delle Opere e edoardo patriarca dell’ Istituto Donazioni (quota PD infilato dal partito nel Ministero Affari sociali, in vari Osservatori, nel CDA della banca di Carpi e nel CNEL, tutti posti inutili ma retribuiti). Gente che conserva le rendite e non innova.
Poi, l’immensa rottura di coglioni, di sentire dire, ogni volta che si critica il sistema, che si vuole affossare la solidarietà, la generosità verso gli altri e via discorrendo. La questione è un’altra e semplice: quando un donatore versa 100 euro quanti di questi arrivano ai beneficiari diretti e quanto rende, ai beneficiari, l’investimento fatto. Il questo blog abbiamo visto nei bilanci che in media il 70%-80% finisce in spese di struttura (in Italia e all’estero); poi, più difficile, abbiamo visto qualche esempio di come i soldi investiti nei progetti spesso non producono alcun risultato positivo per i beneficiari. Cioè donatori e tax payers sperano d’investire 100 per aiutare qualcuno e, spesso, il risultato dell’investimento è nullo. Se in Italia, come in altri paesi, ci fossero giornalisti capaci d’investigare sui risultati di qualche progetto milionario ne salterebbero fuori di tutti i colori (basti vedere il lavoro parziale della Corte dei Conti); invece gli embedded scrivono solo mielose litanie sui buoni.
Magari la Furlanetto ha mischiato troppe cose diverse (cooperazione, SAD, adozioni, Onlus sociali) e ha tralasciato qualche approfondimento ma ha smosso un po’ la palude. Un esempio è la ricomparsa, dopo le citazioni nel libro, di Agire e Vis, in silenzio dopo la sottrazione di oltre euro 6 milioni destinati ad Haiti, affidati a un promotore finanziario radiato da anni dall’albo. Vis e Agire sono riemersi ma non hanno spiegato ai donatori (loro sono i veri truffati) le responsabilità interne delle associazioni sull’investimento sbarellato e se qualcuno su questo business s’è fatto una cresta (ora l’inchiesta giudiziaria dovrebbe essere ben sviluppata). Niente solo giustificazioni e autoassoluzioni. Nessun rispetto per chi ha spedito un SMS sperando di aiutare la gente di Haiti.
Poi salta fuori l’Istituto delle Donazioni L’Istituto, incassa euro 402.000 e li spende tutti per mantenersi. E’ finanziato dalla Fondazione Cariplo e dalla Compagnia di San Paolo (euro 200.000; non si sa perché, forse patriarca ha qualche amico) e dalle ONG che dovrebbe controllare. Spende anche euro 10.000 per la Festa della Fiducia con “l’obiettivo d’evidenziare il ruolo sociale della professione del dottore commercialista”. Nel comunicato relativo al libro della Furlanetto, oltre al solito pippone sulla trasparenza formale, si richiama l’inutile alla Raccomandazione N.10 dell’Ordine dei commercialisti che, in un paese normale, dovrebbe essere sostituita da criteri di redazione del bilancio speciali per le ONLUS, e i controlli formali delle società di certificazione (pagate dai certificati come MPS, Cirio, Parmalat, Agire, etc.). Poi aggiunge cose curiose: scrive che è giusto che che le ONG\ONLUS siano “patrimonializzate” cioè che si tengano i soldi donati per investirli (magari affidandoli a promotori radiati come fece Agire e Vis). Ma se una società profit è patrimonializzata ciò è utile per sostenere investimenti e costi imprevisti con soldi propri. Ma una ONLUS è un’altra cosa, dovrebbe spendere tutto per gli scopi associativi, visto che proventi e oneri sono a rotazione annuale.
Infine, nel comunicato, l’ente entra in confusione, prima scrive che le ONLUS spendono solo “circa il 5% nella promozione”, poco prima scrivono il 6% e infine concludono “in media dunque sono necessari 19 centesimi per raccogliere 1 euro”. Mah, se questi devono certificare i bilanci, qualcuno ci salvi. Cosa buffa che il comunicato è pubblicato sul sito dell’AIBI che dichiara nel suo bilancio “Dal lato degli oneri, invece, continuiamo soprattutto a spendere troppo per la raccolta fondi in rapporto a quanto raccogliamo”. Infatti spendono euro 677.000 per marketing. Sommati a euro 2.269.000 per stipendi, e euro 748.000 in spese di struttura, fanno il 60% dei soldi raccolti. E c’è da dire che AIBI presenta uno dei bilanci più trasparenti fra quelli da noi studiati. E l’Istituto continua a scivere che l’86% dei fondi delle sue ONG finisce ai beneficiari. Che noia.
Certo la Furlanetto poteva far meglio magari poteva andare a vedere nelle pieghe dei bilanci dove, come in oneri per progetti (cioè soldi inviati ai beneficiari) finiscono stipendi e spese di struttura italiane, niente di male ma è fastidioso che si sbandieri che l’86% dei fondi è speso per bambini, anziani, poveracci vari quando non è vero. Forse poteva andare a rispolverare il vecchio scandalo della tassa sui stipendi dei cooperanti (10% che doveva tornare all’organizzazione), o sulla quota trattenuta dalle ONG su tutti i fondi destinati dalla cooperazione pubblica per i progetti (mediamente fra il 15 e il 20%) che finiscono a mantenere dirigenti, consulenti, fund raiser dell’associazione.
Poteva chiedere a qualche guru delle ONG, se nella sua costante redditizia migrazione fra partiti, sindacati, ed enti pubblici perché non si sia mai mosso per una normativa che stabilisse organi e procedure per la trasparenza e il controllo dei bilanci e delle spese per progetti. Magari copiando quanto si fa in Inghilterra e in altri paesi civili. Lo stesso per i contratti di lavoro, dei finti annunci per il personale, fatti solo per parare l’assunzione di amici e conoscenti, del processo di selezione inesistente e della conseguente scarsa qualità degli operatori e dei dirigenti. Ma il sistema preferisce lasciare tutto nel casino (come spesso accade in Italia) così fra pieghe di norme e procedure, intrallazzi e amicizie, ognuno fa quello che vuole. Avrebbe potuto vedere come tante certificazione siano solo carta straccia, soldi spesi per abbindolare i donatori. Insomma tanta forma e poca sostanza.
Infine, in un paese medioevale come l’Italia, dove bisogna avere protezioni per sopravvivere, sarebbe stato bello che s’indagasse sul rapporto fra ONG e politica, sulle clientele per accedere ai finanziamenti del MAE, delle fondazioni bancarie, degli enti pubblici. Da destra a sinistra partendo da Don Verzè, AISPO, Alisei, i finanziamenti del MPS ad ACRA (già segnalati in tempi non sospetti in questo blog); rispolverare i casi di UNimondo e veltroni, Intersos, vedere come i politicanti fernanda contri e stefano zara hanno distrutto CCS Italia.
Lasciamo da parte la Cooperazione pubblica italiana, morta fra scandali e sprechi e il sistema delle Nazioni Unite soffocato da una e inutile (per i beneficiari) costosa burocrazia. Le soluzioni: riformare un sistema sgangherato richiede tempo, leggi, norme enti di controllo, obblighi e passione.
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