(di Maurizio Caverzan - Il Giornale) «Questa notte è andata bene. È andata benissimo», confida alla telecamera Fabio Caressa, faccia sorridente che spunta dalla mimetica con giubbetto antiproiettile. «Domani i ragazzi ci torneranno, torneranno in perlustrazione». Il pattugliamento notturno della Highway One, la strada che congiunge le principali citta afghane, da Herat a Kabul, è appena terminato e il sollievo è comprensibile perché l’operazione era classificata a «rischio molto alto». Siamo ai primi di agosto, all’inizio delle due settimane che il telecronista principe di Sky ha trascorso con i soldati italiani in missione di pace nelle basi avanzate, le cosiddette Fob. Due mesi più tardi, il 9 ottobre, in un pattugliamento analogo vicino a Farah quattro alpini della Brigata Taurinense (Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca, Sebastiano Ville e Marco Pedone) hanno perso la vita in un’imboscata. E purtroppo è così che accade: la stragrande maggioranza degli italiani si ricorda dell’esistenza di questi militari solo al momento in cui arrivano le notizie più tragiche, gli attentati, le morti, le stragi. Poi ecco le bare, i funerali di Stato, il cordoglio. Ma l’Afghanistan è in guerra da trent’anni: prima a causa dell’occupazione russa, poi dei Mujahideen, ora del regime talebano. E lì, nella parte occidentale del Paese ci sono 3500 soldati italiani che diventeranno quattromila prima della fine dell’anno. Un piccolo pezzo d’Italia di cui però non sappiamo niente.
Ora, con Buongiorno Afghanistan – Diario di Fabio Caressa, reportage in otto puntate in onda da dopodomani su Sky Uno, l’emittente della News Corporation di Rupert Murdoch colma un vuoto che, a dirla tutta, sarebbe una missione perfetta per una Rai che fosse un vero servizio pubblico. Ma che, per una televisione di Stato dilaniata da polemiche e lotte intestine, diventa invece una missione impossibile. Il valore istituzionale di tutta l’operazione lo sottolinea anche la presenza alla conferenza stampa del ministro della Difesa Ignazio La Russa, pronto a far partire l’applauso dopo la visione del primo trailer «che – ha rimarcato – ho visto anch’io come voi per la prima volta. Perché, ci tengo a dire che quando ho incontrato l’amministratore delegato di Sky per parlare di questa missione – ha precisato La Russa – non ho posto condizione alcuna per la sua realizzazione. Mi sono attivato affinché la troupe di Sky potesse andare in Afghanistan e raccontare senza rete la realtà dei nostri soldati».
Così ecco la testimonianza del generale Claudio Berto («L’imponderabile purtroppo esiste e supera la nostra capacità di pianificarlo»); del caporal maggiore Giovanni Berardi alla sua prima missione in Afghanistan, che aveva già conosciuto Caressa durante una partita a Torino (commovente la sua telefonata via Skype con famiglia e amici); del tenente Silvia Guberti che ha fatto da guida alla troupe nella città di Herat, dentro il carcere femminile e nella moschea blu. Il reportage si sviluppa nelle quattro province di Farah, Bala Murgab, Balabaluk e Shaft a Shindand e segue le operazioni di bonifica degli sminatori, la fornitura di aiuti alimentari, la realizzazione di un pozzo, l’assistenza medica della popolazione locale. Non mancano anche i momenti di relax: la pizza, una grigliata, la partita a calcetto e la visione collettiva di una partita della nazionale. Però con l’audio abbassato e la telecronaca dal vivo di Caressa.
«Non mi improvviso certo inviato di guerra – scrive nel suo diario il giornalista – presto solo i miei occhi di persona comune che viene proiettata in una situazione che di comune non ha nulla». Sergio Ramazzotti, autore, fotoreporter e sua guida personale per tutto il periodo lo mette in guardia: «Tu sai che muovendoti con le nostre truppe vedrai solo una parte della realtà, solo una faccia della medaglia». Ma poco alla volta, il tono del diario personale prende il sopravvento sui toni del reportage embedded. Al punto che Caressa può sottolineare la libertà di cui ha goduto sia nei movimenti che nel racconto dell’isolita esperienza. E La Russa può ringraziare i dirigenti di Sky «a nome di tutte le forze armate».
Resta da capire perché un reportage sulle zone di guerra sia stato affidato proprio a Caressa, prima voce del calcio di Sky. «Ho pensato di proporlo a lui e non agli inviati di guerra perché per incontrare i nostri soldati e condividere quindici giorni della loro vita serviva una certa carica di empatia», ha spiegato Andrea Scrosati, responsabile dei programmi di Sky. «Caressa è un volto e soprattutto una voce nota anche agli alpini in missione lontano dai nostri confini». L’idea è venuta vedendo Ross Kemp, un programma di un giornalista inglese che ha visitato le truppe britanniche, sempre in Afghanistan. Ma la realizzazione è molto diversa. Ed è soprattutto l’inizio di un nuovo filone di inchieste e documentari che si prefiggono di «raccontare quegli italiani di cui si parla poco, che agiscono lontano o anche dentro il nostro Paese». La prossima serie, infatti, potrebbe riguardare le motovedette dei finanzieri che pattugliano le acque territoriali nel Mediterraneo e che possono trovarsi a contatto con le imbarcazioni dei clandestini in rotta verso le nostre coste.
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