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Slave to the machine (n.1): chiusa una porta si apre un portone. e speriamo non sia il mio culo
Da EldacarSe scrivete di videogiochi prima o poi vi capita, e se ancora non vi è successo è solo un caso. Sto parlando di quel silenzio imbarazzato che segue la vostra risposta alla domanda "Ah sei giornalista? E di cosa ti occupi?".
Non importa quanto l'interlocutore sia bravo nel dissimulare, ci sarà sempre un impercettibile momento di silenzio, un corrugare di labbra, un distogliere lo sguardo che vi farà capire che, si insomma, non siete veri e propri giornalisti dai, a trent'anni ancora vi occupate di videogiochi?
Sarebbe l'ora di passare a cose più serie.
Si perché, diciamocelo, la fuori, fuori dalla vostra (nostra?) piccola cerchia, dalle fiere specializzate, dai ragazzini che vorrebbero fare il vostro stesso lavoro...la fuori non sarete mai visti con gli stessi occhi non dico di un giornalista "vero e proprio" che scrive di politica o cronaca nera, ma neppure come un critico cinematografico, musicale, o appartenente ad una qualunque delle forme di espressione umana.
Cazzo, sono convinto che pure un critico culinario subisce sguardi meno compassionevoli.
E se ne fotteranno se il mercato dei videogiochi muove cifre che ormai sono tranquillamente comparabili al mondo di Hollywood e fanno sembrare l'editoria una festa dell'Unità con tanto di cocomeraio e ballo liscio.
State certi che chi recensisce libri quel momento di silenzio non lo subirà mai.
E come mai? Le cause sono molteplici e già sviscerate: per alcuni è solo un problema di giovinezza del mercato, cresciuto troppo presto perché perché il pubblico si abituasse. Per altri è colpa delle storie, mancano un linguaggio ed una narrativa adeguati e nonostante qualche raro esempio ci troviamo di fronte a robe comparabili ad un film di serie B raccontato male, per altri ancora è solo una questione di pregiudizi e basta aspettare.
La cosa buffa è che questi son tutti problemi che poco interessano a chi con i videogiochi ci fa veramente i soldi: alla Blizzard si tuffano nei paperdollari ridendo e accendendosi i sigari con le banconote mentre la gente storce il naso e considera WoW un giochino per ritardati (che poi è vero, ormai son rimsti solo i ritardati NdEldacar), e lo stesso fanno tutti gli altri publisher.
E' difficile avvertire un senso di inferiorità quando il tuo conto in banca ha una sfilza di zeri che farebbe impallidire John Holmes.
Dunque è una cosa che colpisce solo noi "giornalisti del settore", o meglio, alcuni di noi, forse proprio voi che state leggendo. E magari qualche volta vi siete pure posti la domanda: come posso far si che la gente mi consideri un giornalista serio senza dover aspettare che il mondo inviti i videogiochi al tavolo degli adulti? Dai cazzo ce l'hanno fatta pure i fumetti!
Tac, ecco la soluzione, i fumetti.
Prima c'erano solo i fumetti, non importa che riguardassero l'olocausto o un topo rompicazzo che aiuta la polizia: sempre fumetti erano.
Poi arriva Will Eisner (o Corben, o non lo so, insomma leggetevi uikipidi) e decide che no, il mio non è un fumetto, è una graphic novel, un romanzo grafico...quindi puppatemi tutti la fava e smettete di guardarmi dall'alto in basso.
E magicamente i fumetti sono diventati una cosa seria, che poi lo erano già, io lo sapevo, voi lo sapevate, ma c'è voluto un cambio di nome perché il medium si staccasse dall'immagine del bambino che legge Topolino prima di fare merenda con la Nutella.
La semantica è un'arma potente baby.
E quindi se ci sono riusciti i fumetti perché noi no?
Facciamo che ne parliamo poi, che già vedo qualcuno in terza fila che sbadiglia.
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