(Lucky Number Slevin)
Regia di Paul McGuigan
con Josh Hartnett (Slevin Kelevra), Morgan Freeman (“Il Boss”), Sir Ben Kingsley (Shlomo, “Il Rabbino”), Bruce Willis (Mr. Goodkat/ Smith), Lucy Liu (Lindsey), Stanley Tucci (detective Brikowski), Michael Rubenfeld (Yitzchok, la fatina), Peter Outerbridge (detective Dumbrowski), Kevin Chamberlin (Marty, il fotografo della polizia), Dorian Missick (Elvis), Mykelti Williamson (Lento), Sam Jaeger (Nick Fisher).
PAESE: Germania, USA 2006
GENERE: Gangster
DURATA: 109’
Scambiato per qualcun altro, il giovane Slevin viene “prelevato” da due gangster rivali che pretendono da lui il saldo di due grossi debiti. Aiutato da una bella infermiera cerca di capirci qualcosa, ma sulle sue tracce si mettono anche un misterioso killer e uno sbirro scorbutico…
Secondo film hollywoodiano dello scozzese McGuigan, già regista del pregevole Gangster n°1. È un tipico esempio di film post moderno in perfetto stile Tarantino, di cui ripropone situazioni sul filo dell’assurdo e dialoghi paradossali, struttura narrativa che moltiplica i punti di vista rispetto ad ogni singolo avvenimento e concetto di fondo (uno sfrenato cocktail di generi – qualcuno lo chiama pulp). Oltre al cast di grandi nomi, ha essenzialmente due carte vincenti: la perfetta sceneggiatura di Jason Smilovic e la regia furbetta di McGuigan. Entrambe si sostengono a vicenda nel creare un’ammirevole suspense che sfocia nel mirabolante colpo di scena finale. A livello stilistico, strutturale, narrativo, dunque, nessuna riserva: il film è divertente (da antologia i primi 30’ in cui il protagonista viene sballottato in giro per la città con addosso ciabatte e asciugamano), coinvolgente, fascinoso. La struttura a scatole cinesi è davvero ben congegnata, e alla fine i conti tornano in maniera assai suggestiva. I difetti sono più che altro nel finale, in cui i buoni diventano cattivi ma nemmeno poi così tanto, in cui dopo la vendetta tutti si dimostrano “umani” e meritano la felicità, in cui si azzardano collegamenti un po’ troppo pretestuosi (come quello tra il protagonista e il poliziotto). Strutturalmente niente da dire, “ideologicamente” qualche riserva c’è. Interessante comunque tutto l’apparato meta cinematografico, riscontrabile non soltanto nei richiami alla storia del cinema (da James Bond a Intrigo Internazionale) bensì anche nei dialoghi apparentemente futili: “Il cattivo che non vedi in faccia è quello più riuscito”, dice Slevin; si riferisce a Bond, ma si riferisce anche a questo film. Così come nella “mossa Kansas City”, evocata nel prologo e tratta da una vecchia canzone (sui titoli di coda ne sentirete una versione “moderna”) secondo cui si deve spostare l’attenzione a destra per colpire a sinistra, si legge retrospettivamente il senso del film. McGuigan ci fa guardare a destra, e poi ci colpisce a sinistra. Le nuove generazioni hanno gridato al capolavoro, cosa che di fatto non è. È certo un buon film, ma il suo essere così ancorato ad un “movimento” (il pulp alla Tarantino) ne fa un prodotto in parte già superato, figlio di un’epoca sola, che difficilmente verrà ricordato.