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Si fanno scelte che, col famigerato senno di poi, appaiono dei madornali autogol o addirittura delle ferite, inutilmente autoinflitte.
Lo capì e lo dovette accettare anni fa Sir Arthur Conan Doyle quando fu costretto a “resuscitare” a furor di popolo la sua creatura letteraria Sherlock Holmes, virtualmente assassinato dall’autore inglese nell’ultimo episodio della raccolta Le memorie di Sherlock Holmes, intitolato Problema Finale.
Stessa sorte è toccata, un centinaio di anni dopo, alla Marvel, la casa editrice dell’Uomo Ragno (pardon, la casa editrice di Spider-Man, come dicono i nuovi lettori la cui passione per il nipote di May Parker deriva da approcci cinematografici), che, complice la volontà di avvicinare le ambientazioni contenute nel fumetto a quelle presenti nei film, riporta in vita un personaggio apparso la prima volta in Amazing Spider-Man 18 e deceduto violentemente in Amazing Spider-Man 123: Norman Osborn alias The Green Goblin, capostipite dell’infinita stirpe dei Goblin (dopo di lui, senza aver presunzione di completezza, possiamo citare Demogoblin, Hobgoblin I e II, il Goblin buono, il Goblin Grigio, Minaccia, le Goblin, il Goblin del 2099 e via dicendo).
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Padre, scienziato, uomo di potere. Ma anche anche supercriminale. Non uno come tanti, bensì quello con la più grande tendenza narcisistica della storia del fumetto, desideroso di essere libero di imporre la propria, distorta, psicotica versione del mondo, senza però che gli venga mossa alcuna critica. Anzi, desideroso di venire acclamato. Già queste caratteristiche sarebbero sufficienti allo scrittore meno dotato per tirare fuori storie e contesti da premio Eisner (l’Oscar del fumetto).
Tuttavia, l’allora lucida mente di Stan Lee volle aggiungere un ulteriore quid, un elemento destabilizzante che potesse infrangere il prisma che proiettava le innumerevoli potenzialità del Goblin e trasformarlo in un mare di infiniti frammenti, ognuno dei quali sarebbe potuto essere una storia degna di essere letta.
Venne legata alla genialità del personaggio una follia degenerativa, un caso di sdoppiamento di personalità tra Norman Osborn e il Goblin. Un uomo. Due personalità. L’una più malvagia dell’altra.
Solo la fantasia di Stan “The Man” Lee sarebbe stata limite all’ascesa di quello che sarebbe potuto diventare uno dei più importanti villans (supercriminali) dell’universo Marvel al pari del Dott. Destino o del Teschio Rosso.
Tuttavia, Stan “Il sorridente” Lee fece una scelta diversa. Come in una partita a scacchi decise di sacrificare alcuni pezzi per vincere la partita. In palio c’era niente di meno che passare alla storia scrivendo il racconto che, in un certo qual modo, cambiò per sempre il modo di raccontare i supereroi.
I pezzi che il deus ex machina della Casa delle Idee decise di sacrificare furono due: un alfiere (Goblin) e una regina (Gwen Stacy).
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Gwen Stacy era l’innocenza della speranza. Niente di meno.
Certo, era la figlia dell’amato e defunto Capitan Stacy e sì, era la fidanzata di Peter Parker alias Spider-Man, ma era soprattutto il personaggio della serie che non si poteva non amare per bellezza, bontà e devozione al suo uomo.
Era la speranza che forse, solo forse, quel nerd sfigato di Peter Parker un giorno avrebbe potuto avere una qualche forma di riscatto sociale e vivere un lieto fine. Come detto, Gwen Stacy era la prospettiva di un futuro migliore che, metaforicamente, muore con lei.
Nel momento in cui Stan Lee ne decide la morte, chiudendo un’epoca e introducendo il grande pubblico a un concetto che sempre più spesso si affermerà, cioè quello delle grandi morti dei comprimari destinate a cambiare lo status quo dei personaggi, sa già che l’assassino non potrà sopravvivere alla vittima. Sa già che Goblin deve morire.
Troppo grande è il crimine che è stato commesso. Troppo grande l’impatto narrativo evocato.
Non può essere l’eroe ad ucciderlo, non se l’eroe è Spider-Man, non se siamo nel 1973, non se Frank Miller, Alan Moore e Ed Brubaker non hanno ancora incattivito i supereroi al punto tale da giustificare un omicidio in calzamaglia.
Non resta che l’escamotage narrativo dell’incidente, per altro condito dal retrogusto di un significato metaforico: l’essere vittima delle proprie mani, della propria malvagità. È cosi che muore Norman Osborn, The Green Goblin, trafitto al petto dal suo stesso aliante durante la resa dei conti con la sua nemesi.
Così finisce un’epoca. Il nemico è sconfitto, ha pagato con la vita il suo crimine. Giustizia è fatta. Resta solo un supereroe destinato per sempre all’infelicità che deve iniziare a continuare a vivere.
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Poi venne la crisi, di idee e di vendite, e portò con sé il ritorno di chi era destinato a restare morto: Norman Osborn.
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Soprattutto, se prima della sua morte poteva sorgere il dubbio su chi fosse il vero avversario di Peter Parker, cioè se fosse il cinico e spietato Norman Osborn (uno dei pochi ad aver scoperto la vera identità del supereroe) o il folle Goblin il nemico da cui guardarsi, ora questo dubbio è svanito. Il Goblin è solo una maschera, tanto fisica quanto mentale, in cui Norman si rifugia. Una specie di seconda personalità malvagia quanto la prima, ma più incontrollabile. È l’uomo, e non la maschera, colui che è tornato dalla tomba per rendere impossibile la vita del giovane fotografo e di tutto l’universo Marvel.
Se quindi il Goblin è la rappresentazione della follia rabbiosa di Norman Osborn, appare chiaro come un uomo desideroso di avere assoluto controllo su tutto, compreso se stesso, lotti con tutte le sue forze (e tutti i suoi farmaci) per evitare che questo aspetto emerga. Osborn rifugge dal Goblin, che in un certo senza rappresenta una sconfitta. Quando lo stratega, il manipolatore, l’uomo che ha sempre un piano d’azione e cento di riserva fallisce, lì la rabbia prepotente del mancato successo lotta per emergere, per ottenere con la violenza ciò che con la malvagia furbizia non è stato possibile raggiungere.
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Ed è stato sempre lui a diventare il potere forte dell’universo Marvel, tramite questa organizzazione, riuscendo a soggiogare Sentry, il più potente tra gli eroi e a riunire allo stesso tavolo tutti i più importanti supercriminali sotto la sua egida.
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Non che questo possa avere un effetto risolutivo in un universo narrativo in cui il bene, più o meno, trionfa sempre.
Infatti Norman è destinato a tornare in prigione alla fine di questa lunga saga. Ma a restarci?
Già una volta la Marvel commise l’errore di abbandonare questa fonte infinita di storie. Dopo l’enorme lavoro di approfondimento psicologico e di crescita del personaggio, difficilmente avrebbe sbagliato di nuovo.
Nell’attuale continuty Marvel (con riferimento agli albi italiani) Osborn è protagonista più che mai, intento sia nel tentativo di riconquistare l’opinione pubblica sia in quello di riprendere il potere, convinto, nella sua lucida follia, di essere l’unico che può salvare l’umanità dai molteplici pericoli che la minacciano.
Desiderio di controllo assoluto che sottolinea un’insicurezza assoluta, una psiche turbata, una doppia personalità che alterna una tendenza alla mancanza di scrupoli a una follia violenta; intelligenza e capacità di programmare e architettare, oltre che
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Appare chiaro che la condanna alla morte editoriale che Stan Lee e soci avevamo emesso nei confronti di Norman Osborn, a fronte delle potenzialità e della ricchezza narrativa del personaggio, non poteva che essere temporanea, come nella migliore tradizione del fumetto supereroistico.
Cosa ci aspetta in futuro da parte Norman Osborn/Green Goblin è assolutamente imprevedibile, come d’altronde lo è per antonomasia la follia. Non ci resta che accomodarci in poltrona pronti a essere stupiti, consapevoli che, come per Batman esiste il Joker, per Capitan America il Teschio Rosso e via dicendo, per Spider-Man esisterà sempre un Goblin.
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