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Sociologia/ Un’altra prospettiva. Le famiglie militari e il supporto ‘fai da te!’

Creato il 26 aprile 2014 da Antonio Conte

Sanremo 2014, le mogli dei marò in sala stampaUn antico proverbio latino diceva: “Dotata animi mulier virum regit” (Una donna provvista di uno spirito coraggioso sostiene il marito), ad oggi migliaia di donne coraggiose in ogni paese della NATO supportano pazientemente il loro compagno che ha deciso di servire il paese con indosso una divisa.

Per rimanere al passo con i tempi, potremmo dire che questo detto è ormai superato, non sono solo le donne a rimanere in attesa del ritorno del milite in famiglia, ma ormai sono sempre di più gli uomini che ricoprono il ruolo di “Angeli del focolare” mentre la moglie veste i panni della soldatessa.

Negli ultimi cinquant’anni in tutti i paesi NATO si è resa particolarmente evidente la grande influenza che le famiglie hanno sui militari e sul loro lavoro in patria e all’estero.
L’instabilità emotiva e la mancanza di serenità famigliare sono capaci di creare un pericoloso tunnel di negatività che si ripercuote sul rendimento del militare stesso che metterebbe la sua vita in una condizione di forte pericolo in teatro operativo o in addestramento.

La famiglia e l’istituzione militare sono definite in ambito sociologico Greedy institutions - istituzioni totalizzanti e tra loro concorrenti. Entrambi per sopravvivere hanno bisogno della totale dedizione e abnegazione di coloro che ne fanno parte.

Proprio partendo da questa condizione anomala possiamo costruire il concetto di supporto per famiglie militari che basa la sua politica sulla necessità di creare un equilibrio duraturo tra le esigenze famigliari e quelle dell’organizzazione militare, mitigando le questioni cruciali legati alla carriera della armi quali : il pericolo di essere ferito o ucciso; necessità di spostamenti – anche frequenti – in città diverse o in alcuni casi paesi diversi e separazione prolungata dai nuclei famigliari a causa di impegni all’estero.

I primi a notare la stretta correlazione tra Famiglia ed Efficienza nelle Forze Armate sono stati nemmeno a dirlo gli Americani, che nel 1965 iniziarono a proporre il primo piano di aiuti per coloro che all’interno del nucleo famigliare avevano un uomo prestante servizio sotto le armi.

Si notò da subito un miglioramento delle prestazioni e una maggior dedizione alle attività da svolgere, le famiglie dall’altro canto si vedevano maggiormente tutelate e riscontravano una maggior attenzione nel coniuge alla vita famigliare.

Molti esperti definiscono questa scoperta una delle più importanti dal punto di vista della Sociologia Militare. Due aspetti della vita di uno stesso individuo come la famiglia e le forze armate in realtà si scoprivano profondamente legate, si entrava in una fase nuova delle relazioni con il personale militare caratterizzato dalla sempre crescente attenzione verso il lato umano del soggetto in divisa, veniva finalmente data a livello governativo il giusto peso all’uomo e alle sue esigenze primarie prima che a quelle di soldato.

Questa piccola rivoluzione all’interno dell’apparato militare viene testata nel peggiore dei modi, infatti fino al 1989 – anno in cui si pone fine alla guerra fredda – i soldati NATO e in particolar modo i soldati americani sono impegnati su fronti di guerra aperta per diversi mesi. L’apparato famigliare era messo a dura prova da questa lontananza e mogli e figli risentivano non solo emotivamente della lontananza della figura paterna ( all’epoca colonna reggente del peso famigliare ) ma rischiavano continuamente di essere vittime di truffe, malfattori e piccoli criminali.

Dagli anni novanta il clima internazionale cambia, vi è maggiore distensione e i militari e i loro bisogni sono accantonati per far spazio alla sempre crescente emergenza umanitaria in paesi che vivono al di sotto di qualsiasi soglia di povertà. Iniziò così l’era degli interventi di Peace Keeping e Peace-enforcing  nei paesi della zona Balcanica e dell’Africa.

Già per definizione questi nuovi interventi sono diversi, non sono guerre nella loro definizione tradizionale ma sono operazioni di supporto alla pace o stabilizzazione d’area, modificato il nome modificato anche il ruolo dei soldati che passano dall’essere warrior al ruolo più moderno del peacekeeper . Ad alcuni potrebbe apparire solo come un cambio di aggettivazione ma nella realtà dei fatti quello che viene richiesto a questi nuovi soldati è la gestione di aree di crisi umanitarie e non la gestione di quello che sapevano fare : la guerra.

In questo tipo di interventi la risorsa umana assume una rilevanza fondamentale gli uomini non necessitano solo più di un addestramento di tipo tradizionale ma anche un nuovo addestramento di tipo “culturale” che li renda capaci di agire in modo empatico con la popolazione che si trovano davanti spesso di gran lunga più complessa e articolata rispetto a quella a cui sono abituati.

I soldati in queste nuove vesti di peacekeeper devono trovare un senso al loro operato completamente snaturato e riadattato alle esigenze del nuovo assetto internazionale, vi è una sorta di spaesamento dei soldati che non si vedono più come tali. Ma come si collegano il nuovo assetto delle missioni all’estero, il nuovo soldato / peacekeeper e il supporto alle famiglie militari?

Proprio come il soldato deve riadattare il suo ruolo allo scenario internazionale così anche le famiglie devono concentrarsi a capire questo nuovo aspetto della vita del loro congiunto. Le famiglie sono chiamate a supportare non il militare ma a sopportare lo stress che in esso potrebbe albergare data la nuova missione che deve affrontare.
La famiglia diventa una valvola di sfogo fondamentale per mantenere l’efficienza operativa dei militari all’estero che sono vittime spesso della neutralità che è loro richiesta in luoghi dove le ingiustizie sono ad ogni angolo.

I comandi devono non solo garantire il benessere fisico dei militari impiegati ma devono anche supportare le famiglie in modo tale che non crollino sotto il peso della pressione esercitata dal parente in missione, per questo sono iniziati i primi incontri – sotto forma di riunioni – e il volantinaggio per spiegare a mogli e figli lo scopo della missione in cui era impegnato il consorte o il genitore cercando di essere il più chiari e diretti possibile.

Successivamente le tecniche di supporto si sono affinate e in collaborazione con tutti i reparti delle forze armate sono nati i primi centralini di smistamento per le chiamate dalla madrepatria con lo scopo di rendere più sopportabile la lontananza dai propri cari. Questo è stato un passo importantissimi per non dire fondamentale in un periodo che prevedeva quasi esclusivamente lettere scritte a mano e qualche foto allegata.

Tutte quelle nuove tecnologie per consentire a militari e famigliari di rimanere in contatto con coloro che si trovano in missione sono oggi date per scontate, mail, telefonate satellitari, skype e una banale connessione internet erano all’epoca un lusso inesistente o appena accennato.

Una semplice telefonata dall’Italia alla base italiana rappresentò un cambiamento radicale  e profondo verso l’era moderna non solo delle comunicazioni ma anche del rapporto tra personale militare e famiglie La politica interna ed internazionale avevano rivisitato la loro attenzione verso i militari umanizzando la loro professione e non dando per scontato il lato “umano” di coloro che rischiavano la vita per il paese, un cambiamento da non sottovalutare in termini storici.

Nel 2000 uno studio condotto da De Soir e nello stesso anno pubblicato su una rivista del settore propone un modello composto da sette stadi che la famiglia militare attraverso dall’inizio della missione fino alla fine

1- la protesta , derivante dallo shock iniziale
2- il disimpegno alienato
3- la disorganizzazione emotiva
4- la ripresa
5- la stabilizzazione
6- anticipazione del ritorno
7- riunione e nuova stabilizzazione

Alla situazione di privazione vissuta dalle famiglie militari è possibile dare risposta con una varietà di soluzioni che si sono trovate in diversi paesi afferenti alla NATO.
Il modello a quattro strategie proposto da Moelker individua due dimensioni sottostanti alle possibilità che le famiglie hanno di reagire alle proprie situazioni problematiche : la prima dimensione è di dipendenza o indipendenza, la seconda dimensione sottolinea un orientamento individualistico o al contrario comunitario.

Queste quattro dimensioni appena citate ( dipendenza; indipendenza; individualistico; comunitario ) si possono associare dando vita a quella serie di soluzioni utili alla risoluzioni dei problemi per le famiglie il cui partner ( o entrambi ) fanno parte della Forza Armata.

  • individualistico / indipendente: relazioni basate su conoscenze private della famiglia e a cui questa fa riferimento indipendentemente ( ex : avvalersi di baby-sitter ) 
  • comunitarie / dipendenti: l’istituzione militare fornisce supporti interni e forme istituzionali di aiuto alle famiglie del proprio personale militare.
  • individualistico / dipendente: in questo caso si fa ricorso a personale specializzato nel tipo di problema che si deve risolvere ( ex : legali, medici, psicologi )
  • comunitario / indipendente: reti sociali di sostegno basate sul principio della reciprocità, cioè trovarsi spesso nella stessa situazione permette a due famiglie di darsi supporto in modo vicendevole.

Queste tipologie di supporto presentano livello di efficacia diversi e variabili a secondo dei problemi che è necessari affrontare, delle caratteristiche dei nuclei famigliari coinvolti e del contesto sociale in cui questi vivono.

Tuttavia nonostante le diverse opzioni sopraelencate alcuni nuclei famigliari non sentono la necessità di condividere le difficoltà scaturite dalla momentanea assenza di uno dei componenti con nessuna altra persona né di avvalersi di supporti esterni.

Tale circostanza si verifica non troppo raramente sopratutto quando il ruolo all’interno della gerarchia militare è piuttosto elevato oppure quando questo è molto basso. In queste due situazioni si teme che le notizie e le lamentele che il militare porta a casa possano involontariamente essere sottoposte all’attenzione di altre famiglie e dunque nuocere alla carriera del soggetto interessato. Altri motivi di assenza di aggregazione sono la totale autonomia gestionale dei servizi domestici e famigliari, magari supportati da altri membri della famiglia secondaria ( nonni, zii, cugini ) oppure semplicemente la non affiliazione a gruppi di supporto deriva da una reticenza nel volersi inserire nella struttura della Forza Armata a cui il membro famigliare appartiene così da avere un netto distacco tra il lavoro e la famiglia.

Quanto fin qui detto è tuttavia una bella realtà solo in paesi come gli Stati Uniti e alcuni paesi Europei.
Nel nostro paese la politica di supporto alle famiglie militari è una realtà tristemente ignota per  non dire assente, spesso oggetto di accese critiche e figlia della politica un po’ tutta italiana del “nulla fare nulla sbagliare” .

In Italia infatti la mentalità nei confronti del mondo militare è diversa da qualsiasi altra realtà, il pensiero collettivo quasi ossessivo che molti hanno è di pensare che le famiglie che al loro interno hanno un militare “se la sono andata a cercare” ; “sapevano a cosa andavano incontro” riducendo così il supporto per queste famiglie ad una esigenza estemporanea e del tutto escludibile dal processo di welfare state.

Il quadro complessivo della situazione italiana è il più tragico in assoluto per i paesi della NATO, oltre ad esserci totale disinteresse per le famiglie da parte dell’opinione pubblica anche da parte delle istituzioni non si può dire che vi sia comprensione, infatti non esistono forme di supporto e di aggregazione di nessun tipo offerte dall’istituzione Difesa per le famiglie dei prestanti servizio. Durante la missione moglie e mariti dei soldati sono letteralmente abbandonati dai comandi e in caso di necessità molto gravi non esistono enti o associazioni preposte all’aiuto di queste famiglia in difficoltà.

Opinione pubblica sfavorevole, istituzioni latitanti e politiche sociali disastrose creano un clima insostenibile per molte famiglie che non sopportando gli oneri che l’avere un militare in casa richiede si vedono costrette a separarsi  ( non a caso il tasso di divorzi tra i membri delle Forze Armate ha indici altissimi in Italia ).

Per ovviare alla mancanza istituzionale di un supporto materiale  alcune giovani mogli  e fidanzate volenterose si sono unite in gruppi di supporto “fai da te”.
Nel 1993 nasce il gruppo nominato le 3M – Moglie Marina Militare ad oggi ancora pienamente operativo nell’ambito del supporto alle famiglie il cui membro militare è afferente alla Marina.

Più di recente – nel 2013 – dalla straordinaria condivisione di diverse decine di mogli e fidanzate di militari nasce l’associazione “ L’Altra metà delle Divisa “ che accoglie sotto di sé famiglie di ogni forza armata compresi i Carabinieri talvolta dimenticati.

AMD – questo l’acronimo con cui viene normalmente riconosciuta l’associazione – offre una rete di supporto nazionale e radicale per le famiglie militari con l’avvalersi di personale altamente specializzato come psicologhe e psicoterapeute, un servizio legale accessibile per qualsiasi questione e consulenze di vario tipo tutte utili per le famiglie. Inoltre questa rete di conoscenze in tutta Italia permette alle giovani famiglie in procinto di trasferirsi o appena trasferite di conoscere altre famiglie che vivono la loro stessa situazione.

Decisamente un’iniziativa utile ma isolata e poco supportata dalle istituzioni – non solo della difesa – troppo spesso ostracizzata dalle altre mogli che non vedono nel supporto alle famiglie una realtà utile e spesso messo in ridicolo da mogli eccessivamente coinvolte nelle problematiche del marito che si lanciano in invettive fuori luogo creando talvolta imbarazzo.

Alla luce di quanto fino ad ora detto, tutti coloro che vestono una divisa e le loro famiglie sperano in un radicale cambiamento da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica verso le problematiche che quotidianamente devono affrontare avendo un soldato tra le mura domestiche.

Affrontare il problema delle famiglie camouflage e delle loro esigenze non vuol dire ripudiare la problematica di altre famiglie in difficoltà ma vuol dire accertarsi che in un paese democratico come quello in cui viviamo  non esistano cittadini con diritti diversi in base al lavoro che qualcuno di loro ha scelto.

L’Italia è già stata severamente richiamata da quasi tutte le istituzioni comunitarie e afferenti alla NATO per questa grave mancanza di attenzione verso il personale militare e le loro famiglie, situazione non sicuramente smentita dalla realtà dei due Marò detenuti in India e le cui famiglie stanno diventando il simbolo indiscusso della lotta per i diritti e il riconoscimento delle difficoltà che una scelta come quella della vita condivisa con un militare comporta.

Denise Serangelo

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