di Iannozzi Giuseppe
Il culo dell’Inferno
Viveva da tempo in una scassata roulotte. Qualche vipera diceva che vivesse per la roulette russa e la bottiglia di whisky, il che non era poi del tutto sbagliato. Da tempo non scriveva più una sola frase: infilava il foglio nella macchina per scrivere, e quello restava lì per giorni e giorni fino a quando Stefano si decideva a sollevarlo da quella punizione per accartocciarlo e gettarlo nel cestino. La moglie ciabattava nella roulotte, ma da tempo aveva smesso di parlare al marito. Non si era rassegnata, ma lo aveva capito che Stefano era un fallito. Un giorno o l’altro l’avrebbe lasciato per impiccarsi al cielo o per farsi scopare a sangue da un negro ben in arnese, non desiderava altro oramai.Stefano passava da una bottiglia a un’altra, con leggerezza, poi alla sera, con la testa pesante di pensieri cadeva sul letto e al mattino si svegliava come se fosse stato violentato da un Minosse. Si stropicciava gli occhi, metteva a fuoco la confusione che regnava nella roulotte, arrancava fino al pacchetto di sigarette, ne accendeva una, gridava qualcosa alla moglie, infilava il foglio nella Lettera 35; e il resto della giornata l’avrebbe passato a giocare con il tamburo della pistola, senza una sola idea in testa.
Quando aveva conosciuto Fiorella, Stefano le aveva promesso che sarebbe diventato un grande scrittore, il più famoso: erano entrambi giovani e credevano nelle illusioni e pure nei miracoli. Il tempo era passato sù di loro come un rullo compressore e non aveva risparmiato nulla. Fiorella non parlava più. E lui non era diventato uno scrittore: quanti anni aveva… forse quaranta, non ne era sicuro. Nel cassetto aveva raccolto tre o quattro romanzi: li aveva presentati a tutti gli editori che conosceva ma non uno gli aveva risposto. Una volta si era permesso di chiamare un editore: gli aveva detto, con naturalezza luciferina, che il suo dattiloscritto era arrivato e che era stato letto. Gli aveva fatto anche gli auguri, poi aveva messo giù. Stefano non seppe più niente né dell’editore né del libro che gli aveva spedito in visione.
Una volta Fiorella l’aveva rimproverato: “Scrivi cose troppe truci. Alla gente non piace morire di paura. Sei perverso, per questo non vieni preso sul serio.” Questa osservazione l’aveva fatto montare su tutte le furie: l’aveva schiaffeggiata, poi l’aveva sbattuta per terra, le aveva sollevata la gonna e l’aveva sodomizzata per dieci minuti buoni, con cieca violenza. Era uscito da lei solo quando, madido di sudore, il pene aveva cominciato a fargli male.
Fiorella aveva l’ano ancora tutto d’un pezzo, per puro miracolo: per giorni era andata al gabinetto cagando sangue e merda. A Stefano invece gli si era gonfiato il glande, in maniera abnorme: dopo quella volta non aveva più provato desiderio, ma solo la necessità di succhiare direttamente dal collo della bottiglia l’amato whisky.
Ne aveva quaranta o giù di lì. Era vecchio e non aveva pubblicato un cazzo. Faceva la fame. Fiorella lo guardava con disprezzo, gli occhi dicevano tutto. Stefano però non se la sbatteva più per punirla. Si era rassegnato a essere un fallito.
Fuori le stelle luccicavano uguali a occhi indiscreti, disegnati da un dio malvagio sù un sudario nero. Stefano si accese una sigaretta: le nuvolette di fumo gli salivano davanti agli occhi. Piangeva senza sputare lacrime. E lo vide, un uomo grande, un mezzo gigante, nero. Solo il bianco degli occhi e dei denti, tutto il resto era nero.
“Abraxas”, si presentò il negro.
“Stefano.” E subito evidenziò: “Tu sei un negro.”
Quello scoppiò in una risata di gola: “Sì, un negro. Qualche problema?”
“No, era tanto per dire.”
”Serata fredda.”
“Come le altre.”
Abraxas gli attorcigliò un braccio intorno alle spalle, quasi volesse stritolarlo: “Non offri?”
Stefano lo fissò nelle palle degli occhi per un mezzo secondo buono, poi gli allungò il pacchetto. Il negro raccolse una sigaretta, se la mise fra i denti bianchissimi e prese a fumare.
Non gliel’aveva chiesto il fuoco. Stefano pensò che avesse il suo.
“Problemi?”
”Che te ne frega?”
“Niente. A me piace tua moglie.”
“Che c’entra?”
Il negro non gli rispose. Gli buttò giù una domanda: “Che fai, di mestiere?”
Stefano si stava irritando, non aveva però il coraggio di mandare al diavolo quel colosso nero: “Scrivo.”
”E…?”
”Diciamo che non sono molto bravo.”
”Non ti pubblicano.” Abraxas fissò Stefano: “Dovresti raderti meglio, tutti i giorni: uno che scrive dovrebbe essere sempre a posto.”
Rimasero in silenzio, per un po’. Poi il negro disse, tutto d’un fiato: “Lascia che mi scopi tua moglie.”
“Non è una puttana.”
“Potrebbe diventarlo.”
Stefano fece finta di pensarci sù. “Sì, potrebbe”, confermò alla fine.
“Mi aspetti qui?” Era un ordine, non una domanda.
Il negro osservò l’uomo, giusto il tempo di vedergli la testa muoversi in un impercettibile sì. Poi si avviò verso la roulotte dove una luce bassa filtrava attraverso il finestrino sporco di fango e olio. Non bussò alla porta, entrò e basta. La luce si spense. Stefano rimase a fissare il cielo di stelle.
Lo svegliò il sole. Era già alto.
La testa gli doleva e gli occhi gli bruciavano: colpa del sonno e del fumo.
Si alzò: aveva gli arti come se l’avessero legato alla ruota della tortura. Sputò e si avviò verso la roulotte. Solo quando fu davanti alla porta si ricordò del negro, di quello che gli aveva permesso di fare. Il sangue gli affluì alla testa: non provava rimorso, solo una punta di fastidio. In fondo al cuore sperava che Fiorella non gli dicesse niente come sempre; sperò che il negro non gli avesse raccontato della loro amichevole conversazione fra uomini. Mentre sperava, la porta si aprì… ne uscì la donna, sorridente.
Lo baciò in silenzio sulle labbra, poi, leggermente claudicante, prese il passo per scendere sino al fiume e lavarsi la faccia. Stefano tirò un sospiro di sollievo. Entrò. Dentro era tutto in ordine. Infilò il foglio bianco dentro il rullo della vecchia Lettera 35, accarezzò la pistola per un secondo e se ne dimenticò, e si passò una mano sulla faccia: “Non va bene: dopo mi dovrò radere per bene, con la schiuma.” Prese a picchiare sui tasti della macchina per scrivere, come un diavolo. Andò avanti per delle ore: era la cosa migliore che avesse mai scritto, un vero e proprio orgasmo.
Carillon
“Non è abbastanza fino alla fine del tempo!”, pensò. Stava uscendo dalla caffetteria: fuori la neve fioccava e dei volti della gente solo si distingueva una lama d’ombra. Sciamavano frettolosi, infreddoliti, raccogliendo le bocche dei cappotti sul volto. Parlavano così, nella mutezza. Quel pensiero continuava a ossessionarlo: si ripeteva all’infinito, fioccava nell’anima, nella mente. Gli balenò in testa l’idea d’andare a trovare una vecchia amicizia, ma la sapeva sposata, così resistette all’impulso e comandò un fiacre perché lo portasse a casa. Ma, mentre spiava dai finestrini il mondo di fuori investito dai fiocchi di neve, cambiò idea. Pagò con una moneta d’argento, e s’allontanò dalla confusione delle strade, con fretta. La periferia cittadina era abbastanza tranquilla. Si fermò davanti a una vetrina, meravigliato che ci fosse una bottega d’antiquariato proprio lì: un carillon faceva mostra di sé, una ballerina girava e danzava un meccanismo a molla, e una ragnatela vestiva il suo tulle. Entrò. Uscì con un pacco. Era visibilmente esagitato. Quasi gridava, “Non è fino alla fine del tempo!”, o qualcosa di simile, perché le parole gli si spezzavano in gola. Rovinò a terra, ma subito fu di nuovo in piedi. Doveva raggiungerla, batterla sul tempo per riuscire a incontrarla. Ma non ricordava più il luogo dell’appuntamento e se Lei gliene avesse mai accordato uno. Odiò sé stesso, ma soprattutto Lei, lasciando cadere a terra il pacco, che si aprì. Il carillon prese a suonare, ma nessuno dei rari passanti fece caso né alla triste melodia né a quell’uomo non poco singolare che bestemmiava in mezzo alla strada. In periferia.
L’editor
‘Sapeste voi che noia! Son tutti presi a scrivere versi o a tentare il ghigno d’una scimmia. Ed io, io che dovrei fare? Li lascio fare, ma che non venghino a scocciarmi poi con le loro assurde pretese d’esser pubblicati e d’aver pure il serto.’ Così pensava un vecchio editor sommerso da un mare di dattiloscritti ch’aveva letto sì, ma mai per intero. Mai. Suo brutto vizio era quello di leggere nome e cognome dell’Autore, poi il lavoro finiva, nel migliore dei casi, in mezzo alle ragnatele del suo bureau. Qualche volta gl’arrivava una lettera in bella calligrafia scritta sù carta pergamenata; allora l’apriva, la leggeva con attenzione, guardava il plico allegato e si diceva che “sì”, quello era libro che non aveva bisogno d’esser letto per esser subito pubblicato, ovviamente non prima d’aver incontrato l’Autore e d’essersi fatto idea precisa se questi poteva tornargli utile per allargare il giro delle sue conoscenze. Solitamente gl’andava bene, perché chi gl’inviava lettera pergamenata era uno coi danè disposto ad allargarsi in un abbraccio.
Il Niente
Quel giorno il vecchio critico sfogliò la prima e l’ultima pagina del voluminoso libro che gl’era stato inviato affinché lo recensisse. Tutti i colleghi s’erano prodigati come scimmie, tutti avevano detto che il romanzo non poteva che essere l’opera prima d’un genio; ma il vecchio consumato critico solo si limitò a dire ch’era il primo e l’ultimo fallimento di chi aveva creato il niente in mezzo a mille pagine scritte fitte fitte.
Il giorno dopo sulle colonne del prestigioso Letterario apparve la recensione: “Il niente occupa sempre troppo spazio.”