Magazine Diario personale

Sofia posted by Luisa Bolleri

Da Parolesemplici

Sofia posted by Luisa BolleriAppoggiato con la testa alle sbarre fredde della prigione, guardai all’esterno, spingendomi in fuori per riuscire a vedere chi stesse arrivando.

Faceva molto caldo, nonostante il sole non penetrasse mai dentro quelle mura. Ben presto la mia pelle untuosa di sudore cominciò a scivolare contro il metallo. Sapevo di non avere un buon odore. Lì dentro poche cose avevano profumo: i ricordi, i sogni, il tuo nome: Sofia.

Erano oltre due anni che aspettavo una tua visita. Inutilmente. Non succedeva spesso, ma ogni volta che la guardia veniva a chiamare qualcuno lungo il corridoio, per condurlo alla sala colloqui, speravo di essere io. Anche quel giorno avrei desiderato essere l’ergastolano eletto.

Come sempre a quell’ora, restai immobile, in attesa che si rivolgessero a me: “Antonio Partinico, seguimi”. In quei 757 giorni, nessuno lo aveva fatto.

“Sono qui, sono pronto. Eccomi!” avrei gridato. Lo avrei sicuramente fatto, se non me lo avesse impedito quel groppo che si formava ogni volta dentro la gola, al pensiero che tu potessi essere lì soltanto per me… Ti amavo.

E poi, se avessi urlato, mi sarei perso il piacere di sentir rimbalzare il mio nome, pronunciato dal secondino, scandito e risonante nell’aria silenziosa e fresca delle celle del braccio C. Lo avrebbero udito tutti, in prigione e sarebbero ammutoliti per la sorpresa. Chi non lo avesse sentito, perché al momento distratto, lo avrebbe saputo dal compagno e lo avrebbe riferito a sua volta a un altro compagno… “Antonio ha visite!”. “Antonio ha visite!”… La cantilena avrebbe percorso l’intero carcere.

Per questo non avevo mai fatto confusione. Anzi, da quel giorno lontano, ripensandoci, non avevo più parlato… E per cosa avrei dovuto farlo?

Eh, sì! Come mi sarei goduto quel momento. Avrebbe ricompensato l’attesa infinita di ogni singolo giorno in cui ero rimasto chiuso lì dentro.

La guardia chiamò un nome che non era il mio. Mi staccai dalle sbarre, accorgendomi di aver trattenuto il fiato e tornai a sedere sulla branda. Il letto era fresco soltanto durante i primi cinque minuti, poi diventava incandescente.

Sentii ridere l’occupante della cella alla mia destra. Lo trovai insensato, ridere da solo per niente. E che cosa faceva, poi: raccontava barzellette a se stesso? La solitudine spingeva gli uomini alla follia in ogni luogo, ma sicuramente in quell’ala di prigione dimenticata da tutti, molto più che altrove. Si alternarono risatine sommesse a scoppi di risa inconsulte ancora per alcuni minuti. Poi fu silenzio.

Il silenzio non mi dava fastidio, andava bene. Dopo molto silenzio, di colpo un singhiozzo ruppe la quiete. Un singhiozzo isolato, neanche troppo forte. Tanto che mi dissi: forse te lo sei immaginato. Ne seguì un altro, e un altro ancora. Poi il mio vicino iniziò a piangere, il pianto disperato di chi ha perso ogni speranza; infine prese a urlare e piangere così forte che tutti gli altri detenuti cominciarono a gridare e strepitare con lui, approfittando della confusione. Le guardie accorsero e, non riuscendo a calmare il mio vicino, invocarono l’aiuto degli infermieri, i quali gli iniettarono un calmante, lo misero a letto e richiusero a chiave la cella. Tutti tacquero.

Ecco, adesso era di nuovo silenzio. Adesso sì.

Sospirai. Con gesti consumati, presi la scatola di latta, la posai sul letto, mi sedetti lì accanto. Era l’unica cosa cui tenessi veramente. In passato era stata una scatola di biscotti qualsiasi, adesso raccontava la mia vita. Era il mio tesoro, lo scrigno dei gioielli, il mio testamento.

Estrassi una foto, senza guardarla troppo, sapevo che mi avrebbe fatto male, come una pugnalata al cuore. Per il momento l’appoggiai sul lenzuolo bianco e ruvido, girata a faccia in giù, come quando si lascia il bocconcino prelibato per ultimo.

Presi un pezzetto di stoffa azzurra strappata, leggera e delicata come la seta. L’accarezzai: sì, doveva essere seta, per forza.

Mi soffermai poi su un fiore essiccato e sbiadito, di un colore ormai indefinito, che un giorno era stato una magnifica rosa rossa: l’avevo ritrovato tra le pagine di un pesante libro d’amore. Ne rigirai lo stelo tra le dita e per un istante mi ricordò il volo scomposto di una farfalla tra i campi. Se alle farfalle soffi via la polverina sulle ali, non possono più volare, pensai rattristato. Sul letto planò una briciola di petalo secco. Quella corolla adesso aveva la stessa consistenza delle ali di una farfalla… meravigliose e fragili.

Osservai il resto: una fedina d’argento, che lasciai in fondo alla scatola; una cartolina da New York raffigurante i grattacieli, Torri Gemelle comprese; un’altra con un incantevole mare azzurro e una minuscola vela all’orizzonte; un ritaglio di giornale con un lungo articolo di cronaca nera, di cui conoscevo a memoria ogni parola e che non avevo più voglia di leggere.

Trascorsi alcuni minuti in compagnia di quegli oggetti, quindi riposi tutto con calma, tranne la fotografia. Chiusi il coperchio e misi a posto la scatola, sul tavolino. Mi sdraiai sul letto, sopra il lenzuolo, in mano la foto. Incrociai i piedi e misi una mano dietro la nuca. Chiusi un attimo gli occhi, come per pulire la mente da ogni altra immagine, dunque li riaprii e guardai in direzione della foto.

Come avevo previsto, il dolore dilagò e mi tolse il respiro.

Dove sei? chiesi senza parlare. Vita mia, amore mio, senso di ogni mio giorno? Continuai a chiedermelo all’infinito, fino a quando, privo di forze, appoggiai l’immagine sul cuore e mi addormentai sopraffatto, tenendola con la mano perché non cadesse.

Sognai la tua pelle morbida, la profondità calda e dolce dei tuoi occhi, il tuo sorriso, i tuoi baci e, dopo l’amore, le tue gambe allacciate alle mie e il tuo fiato tiepido, mentre dormivamo insieme e tutto in noi era gioia. Sul comodino il tuo libro preferito, “Le parole che non ti ho detto”. Quante volte ero rimasto a guardarti.

Poi iniziò l’incubo. Successe tutto in fretta. La porta si spalancò di colpo. Tre criminali con dei grossi coltelli, tre tossici, irruppero nella nostra casa. Forse volevano rubare… Invece no. Volevano divertirsi. Mi stordirono con un colpo alla testa e mi legarono. Risero, rubarono soldi, spaccarono un po’ di soprammobili. Poi si dedicarono a picchiarti, ti violentarono, ti ferirono. Tu ti ribellasti, ti colpirono, ti uccisero.

Quando rinvenni, mi stavano slegando, sgomenti. Non pensavano che avrebbero potuto provocare la tua morte, non ne avevano l’intenzione, pensavano di trascorrere una serata diversa. Forse avrebbero desiderato il mio perdono.

Sofia…

Io mi alzai, ti guardai, già impazzito dal dolore. Sofia. Eri completamente coperta del tuo sangue, bambola spezzata dagli occhi vitrei, freddata mentre ancora ti batteva nel cuore il ricordo dell’amore. Pensasti forse, ancora stupefatta, a quanto fosse in fondo semplice morire, come recidere un fiore di netto.

Il mio fiore più bello. Ti toccai: tu non respiravi più e avevi gli occhi sbarrati. Non si può morire dopo aver amato tanto.

Con facilità strappai un coltello dalla mano di uno dei tre. Lo impugnai a mia volta, assetato di sangue, del loro maledetto sangue, e li sgozzai uno dopo l’altro, urlando come un ossesso: “Nooooo!!!”. Aspettai che invocassero pietà e supplicassero che li risparmiassi, mentre giuravano che non l’avevano fatto apposta e che era stato un tragico incidente. Fu allora che li uccisi.

Alla fine fissai impietrito le mie mani, mi guardai, girai lo sguardo intorno. Ovunque c’era sangue.

Mi risvegliai e mi asciugai gli occhi. Feci attenzione a non bagnare la tua foto. Ti guardai e ricordai: eri bella, ma eri soprattutto bella dentro, così piena di amore per me. Eri mia. Unica e irripetibile, come un meraviglioso sogno che svanisce al risveglio.

Udii i passi del secondino avvicinarsi. Non è più orario di visite, pensai. Disse: “Posta” e lasciò cadere una busta in terra, tra le sbarre della mia cella. Poi si allontanò.

Raccolsi la busta, diffidente. Non c’era più nessuno su questa Terra che mi volesse bene e quella era la prima lettera che ricevevo lì dentro. Una comune lettera, con francobollo e timbro delle poste, che riportava il mio nome e l’indirizzo del Carcere.

Dentro la busta, una lettera scritta in modo maldestro dalla mia anziana vicina di casa, la quale affermava di aver trovato, durante la pulizia del mio appartamento, una lettera di mia moglie dedicata a me. Ammetteva di averla letta, scusandosi in anticipo se era stata indiscreta e, dopo aver trascorso alcune settimane tormentandosi se fosse o no il caso di spedirmela, alla fine aveva deciso per il sì. Non le era parso giusto, aggiungeva, lasciarla lì: la lettera era mia ed era giusto la conservassi io.

Con mani scosse da un leggero tremito, spiegai il foglietto accluso. Era sicuramente la tua scrittura… riconobbi subito lo stile inconfondibile. Era trascorso tanto tempo, l’annusai e mi parve per un attimo di ritrovare il tuo odore di buono, il sapore della tua pelle. Mi lasciai cadere a sedere sul letto e lessi.

“Ti amo. Non so perché, ma ti amo. Per me è come vivere, correre, ridere: amarti mi viene naturale. Senza te mi manca qualcosa, quando ti allontani porti via una parte dei miei pensieri.

Ti amo. Vorrei dirtelo sempre, ogni notte, ogni giorno, ma mi sentirei sciocca.

Vorrei baciarti, abbracciarti e amarti come non è mai accaduto a nessuno.

Addormentarmi, ascoltando il tuo respiro.

Darti dei figli che somiglino al nostro amore, crescerli con te, amarli come e più di te. Questo solo vorrei, per il mio futuro.

Se un giorno ci separassimo, fin da ora so che soffrirei.

Ma non fuggirei.

Ti aspetterei per sempre, mio amore, là dove il giorno incontra la notte e la luna guarda il sole che sorge, dove l’onda schiumosa sfiora la sabbia asciutta, dove la vetta più alta sfiora le nuvole gonfie di tempesta.

Ti aspetterei al confine di ogni gioia e ogni dolore, dove la vita si ricongiunge con la morte attraverso l’unico anello possibile: l’amore.

Rimarrei per sempre lì ad aspettarti, perché so che non ti avrei perso: alla fine torneresti da me.

Ti amo.”

Chiusi gli occhi.

Ti amo anch’io, pensai, scosso dai singhiozzi.

Mi abbandonai alla consapevolezza che non avrei più potuto stringerti tra le mie braccia, in questa vita.

Hai fatto bene ad aspettarmi, amore. Stanotte ti raggiungerò.

Piegai la lettera e la riposi nella scatola di latta.

tratto da: “Caro Amore ti scrivo 2012” AA.VV. Ibiskos Editrice Risolo


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