Titolo: Sofia si veste sempre di nero
Autore: Paolo Cognetti
Editore: Minimum fax
Anno: 2012
La famiglia Muratore dal cuore di Milano si trasferisce nella gated community di Lagobello: alla pace e all’ordine del quartiere fanno da contraltare i drammi piccolo borghesi dei singoli personaggi. E così, tra amichetti d’infanzia che si dileguano, le frustrate velleità artistiche di una giovane madre che fa e disfa minacciosamente la valigia e l’assenza di un padre assorbito dal lavoro, si sviluppa la nevrosi di Sofia che si isola, non mangia, si veste sempre di nero, non costruisce legami, non mette radici in nessun posto e si rilassa soltanto nella vasca da bagno dopo aver ingollato alcune gocce di Lexotan. La sindrome dell’abbandono spinge la bambina, poi la ragazza e la giovane donna a passare di continuo da un’infatuazione all’altra (prima la madre, poi il padre, la zia, il teatro, uomini più grandi di lei, addirittura il cibo a un certo punto, coetanei vari ed eventuali...), senza permettersi mai di costruire qualcosa di stabile, senza dire addio ma sempre chiudendo la porta dietro di sé e andando altrove.
Dieci capitoli che potrebbero vivere anche separatamente ma che invece sono tenuti assieme da un unico leitmotiv, ora suonato chiaro ora lasciato sullo sfondo, eppure sempre presente: Sofia, ovviamente. Un «mosaico» di racconti che, come scrive l’autore sul proprio blog (paolocognetti.blogspot.it), cercano di essere «il più possibile diversi tra loro: molto lunghi e molto brevi; scritti in prima, seconda e terza persona; al passato, al presente e se possibile anche al futuro». Una struttura sfruttata dunque per la pluralità delle soluzioni che offre: i diversi coprotagonisti ci restituiscono immagini della propria vita, che inevitabilmente intrecciano quella di Sofia. L’infermiera che la vede nascere, il compagno dei giochi pirateschi dell’infanzia, la madre irrealizzata, il padre malato, la zia anarchica, la coinquilina lesbica, gli uomini di cui si innamora... Ciascuno fa liberamente affiorare episodi salienti dalla propria memoria, dando vita ad un andirivieni nel tempo della narrazione (i cui estremi sono compresi tra gli anni ’70 e i primi del XXI secolo) e ad una polifonia di voci solo apparentemente complessa, ma dove in realtà il lettore è perfettamente in grado di orientarsi. Insieme ai ricordi personali emergono qua e là affreschi, per la verità piuttosto convenzionali, della storia italiana. In particolare, risulta figlia del cliché l’immagine degli anni ’70 che si ricava dal testo, con le figurine, tracciate con precisione ma assolutamente sterili, della brigatista convinta da un lato, e dell’ingegnere dedito al lavoro e inerme spettatore dei fatti dall’altro.
A livello architettonico, la pecca di questo libro è che i singoli capitoli non sempre (volutamente?) restituiscono la voce di un solo personaggio. Per fare un esempio: mentre il primo capitolo è ben calibrato sul punto di vista dell’infermiera, già nel secondo capitolo si ha l’impressione che si alternino le voci di vari personaggi (Sofia, il suo amichetto Omar, il padre di Sofia e, per un attimo, pure il padre di Omar). Sarà probabilmente una scelta dell’autore, ma il risultato pare indebolire il progetto di fondo di creare alternanza di sguardi tra un racconto e l’altro.
Ma il problema di Sofia si veste sempre di nero è un altro. Se quello che chiedete a un libro è di essere sorpresi, stupiti, sconcertati, scandalizzati, frastornati o anche solo vagamente turbati... Sofia non fa per voi. Quelli che escono dalle pagine sono una serie di personaggi stereotipati che non convincono e anzi stufano presto: una giovane madre casalinga depressa, un padre di famiglia che prima condanni per la relazione adulterina poi assolvi per la malattia, la zia ex brigatista che cerca inconsciamente di redimersi soccorrendo i giovani allo sbaraglio, la coinquilina meridionale cicciottella e premurosa, e così via. La protagonista, poi, nient’altro che una giovane rampolla di buona e cattolica famiglia che, senza una vera e propria tragedia alle spalle, finisce presto per incarnare lo stereotipo della giovane donna anoressica, depressa, libertina, apparentemente indipendente e falsamente paladina della propria libertà. L’unico personaggio che ci vede giusto, e che compare però solo al termine del romanzo, è il giovane regista Juri al quale Cognetti, sorprendentemente, riesce a far pronunciare una frase che potrebbe rappresentare il compendio dell’intero romanzo: «Siete tutti figli di brave persone. Gente civile che non vi ha mai toccato con un dito. Vi costruite un’intera filosofia del rancore su traumi immaginari» (p. 191). Peccato che Yuri si penta subito delle proprie parole e che il suo punto di vista, momentaneamente lucido, non sia sfruttato dall’autore.