Nel 1981, in una notte di Novembre, mi apparve in sogno Alberto Camerini (mio idolo musicale all’epoca) predicendomi che un giorno sarei salito sul palco di un grande ed importantissimo teatro americano. Sembrava una vera e propria premonizione, una chiamata del destino, l’epifania di quella che avrebbe potuto rivelarsi come la mia vocazione professionale ed esistenziale. Fu così che iniziai a pensare di dedicarmi alla scrittura di commedie e, a dispetto della mia inesperienza in fatto di spettacolo e di vita in generale, cominciai a buttar giù le prime pièces preparandomi ai futuri successi profetizzatimi dall’arlecchino del pop-rock. «I sogni non mentono mai», pensai sicuro di me e della carriera che mi si preannunciava, «specie quando prendono forma con la faccia di Alberto Camerini». Tronfio cominciai a fantasticare sul mio domani tra Neil Simon e Andrew Lloyd Webber (anche se, a quel tempo, ignoravo chi fosse sia l’uno che l’altro).
Qualcuno potrà pensare che non bisogna mai fidarsi degli oracoli e delle divinazioni, specie di quelle verificatisi durante i sonni infantili, ma questi miei giorni statunitensi mi hanno dimostrato che invece no, Camerini non ha affatto mentito, semplicemente mi ero sbagliato io nell’interpretazione.
La foto che accompagna questo post l’ho scattata ieri dal mio telefono cellulare Samsung, e ritrae i duemilaseicento posti a sedere di uno dei più belli, antichi e prestigiosi teatri del mondo, il Chicago Theatre in State Street. Solo che io non l’ho scattata durante le prove della versione americana di una delle mie opere ma, in maniera molto più ordinaria, durante una visita guidata alle meraviglie dell’edificio, aperta non solo ai drammaturghi geni come il sottoscritto ma a qualunque comune mortale disposto a pagare i dodici dollari del biglietto d’ingresso ai tour settimanali.
Insomma Camerini aveva detto il vero, limitandosi a prevedere che sarei salito su un palco prestigiosissimo. Si era dimenticato di precisare che l’avrei fatto da turista e non da grande star. E io, ragazzino ambizioso, ho finito col peccare di presunzione.
Che poi per carità, anche così l’emozione è stata enorme, perché se non altro ho avuto la grande fortuna di essere l’unico a decidere di ritagliarsi un’ora tra mezzogiorno e l’una del martedì per immergersi tra i velluti, e dunque ho avuto la guida tutta per me, non ho dovuto subire la deprimente compagnia di altri adepti del viaggio organizzato. Ho insomma potuto fingere di essere davvero una grande personalità dello show business con platea, galleria, buca dell’orchestra e camerini a sua totale disposizione, e per un attimo sognare ancora, a trent’anni di distanza da quella prima visione onirica, di star facendo un giro di ricognizione prima del debutto del mio ultimo capolavoro.
Peccato solo che poi il sipario sia calato, sulla mia visita e su tutti i miei sogni di bambino entusiasta. Mi resta una decina di foto sulla memoria del mio Samsung, il ricordo di quella immensa, meravigliosa platea vista dal palcoscenico, il rumore delle tavole sotto le suole, la puzza di polvere e muffa respirata ne gli squalliducci camerini (stavolta nel senso di stanze per il trucco, non di Alberto) in cui passarono, tra gli altri, Frank Sinatra, Julie Andrews, Prince, Liza Minnelli e Dean Martin. Mi resta l’emozione di quello straordinario teatro vuoto tutto per me, e la bella consolazione che ogni tanto i sogni, anche se solo a metà, si avverano.
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