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Sognavo di fare il calciatore.

Creato il 02 dicembre 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Nel ciclismo, le storie, anche quelle dei più grandi campioni, cominciano tutte pressappoco allo stesso modo. Un bambino che prova la bicicletta grazie al nonno o al papà, scopre che gli piace e comincia a scalare le categorie con fatica e impegno, sognando di diventare pro e vincere una grande gara. Ma ci sono storie che iniziano in modo brusco, una deviazione improvvisa che può sembrare senza senso. Prima di capire che certe tempeste servono per riassettare e pulire la strada. Quella vera.

Bas Tietema è un ragazzone olandese di diciannove anni e corre per la BMC Devo Team, vivaio prezioso della squadra di professionisti. Occhi azzurri e bel sorriso, indossa con orgoglio la divisa rossonera, anche se per lui questo è un sogno tutto nuovo che dura da pochi anni. Da bambino ha sempre praticato ogni genere di sport, dal tennis, al basket, passando per la pallavolo. Amore, uno solo: il calcio. Proprio così, Bas correva sull’erba sintetica sognando di fare il calciatore professionista.

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La sua tempesta è arrivata cinque anni fa, in un freddo mattino d’inverno. Stava giocando una partita con la sua squadra. Lui dice di non ricordarsi esattamente come andarono le cose. E’ stato un attimo, uno di quelli che non riusciamo a ricordare perché c’è qualcosa d’altro di più forte che ci porta via. In quel momento c’era solo il dolore a gridare, a distrarre da tutto il resto, anche da quello che era successo. Solo più tardi, in ospedale, il dottore gli diagnosticherà la lesione dei legamenti crociati anteriori e posteriori. “Ho pensato che fosse un infortunio come un altro” dice ricordando quei giorni. “Mi prescrissero un lungo periodo di fisioterapia e io volevo guarire in fretta, ero convinto di tornare presto a fare sport. Come sempre.
Dopo sei mesi, però, Bas capisce che quello non è un infortunio normale. Tutti i giorni passati dalla fisioterapista sembravano inutili, buttati. Nessuna cura era abbastanza. Ogni volta che provava a tornare in campo, il ginocchio faceva male. Di nuovo e ancora. Ancora. La tempesta aveva spazzato via tutto quel sogno che si stava costruendo, in un attimo che nemmeno si ricordava. I dream to became a footballer. Sì, era il suo sogno da quando aveva quattro anni.

Ma il buio non ci sommerge mai per interi. C’è sempre qualcosa, una parte di noi che rimane vigile ad aspettare la luce. Una parte che è eternamente pronta ad afferrarla. A volte è dentro di noi, qualcosa alla quale ci aggrappiamo ogni volta che stiamo per cadere. A volte viene da fuori, è una forza sconosciuta che non abbiamo mai incontrato fino a quel momento. Per lui, quella forza, è la bicicletta. Un segno, un’indicazione verso una strada che non aveva visto prima di allora. E come tutti i segni arriva senza far rumore e scava piano, ossessivamente, nella vita. Fino a entrarci totalmente.
Ho sempre guardato le gare ciclistiche in televisione…” racconta, “come la Parigi Roubaix o il Tour de France. Poi, quando ero a riposo per l’infortunio, ho comprato una bicicletta. Ed è così che è cominciato tutto. Ho iniziato ad allenarmi come potevo e con tutte le mie forze. Forse perché ero anche tanto arrabbiato per quello che mi era successo e non sapevo dove buttare tutta quella rabbia. Andavo forte, la consegnavo tutta all’asfalto. A un certo punto, quando ho capito che davvero il calcio non poteva più far parte della mia vita mi sono detto: – Al diavolo! Lascia stare.”
D’altronde c’è qualcosa che per lui, nella vita, è più importante di tutto: i suoi genitori e specialmente la sua sorellina con la sindrome di down. Il bene che si vogliono traspare anche da tutti i selfie che posta assieme a lei: sorridono, scherzano, mangiano un gelato. “My little princess” la chiama e in una foto le offre i fiori del podio, uno dei tanti modi affettuosi e semplici per dire che il supporto della famiglia per lui è fondamentale. “Senza i genitori che ti supportano è molto dura!” dice. “I miei mi hanno sempre sostenuto, mi portavano alle corse e mi stavano vicino, anche quando ottenevo scarsi risultati. Io credo che questa sia  una delle chiavi per poter diventare un ciclista pro!

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All’inizio non è stato semplice. Non lo è mai. E la bicicletta e il pallone sono mondi estremamente diversi, anche se in tutti e due si usano le gambe. Forse nel ciclismo bisogna imparare a stare più soli, pur in gruppo. Coltivare la solitudine e farne una forza. Le prime gare concluse diventano grandi traguardi. Perché, spesso, anche il solo arrivare alla fine è un successo: la linea bianca è una cosa sacra che conta anche per gli ultimi, per quelli che la passano dopo il primo. Per Bas contava più di altri, forse. Era la dimostrazione che un’altra strada lo stava chiamando. Non più tacchetti per i prati sintetici ma altri, costruiti per restare aggrappati alla bicicletta. Per correre in bilico su due ruote.
Era la dimostrazione che con la volontà si poteva ottenere tutto. Anche rinascere. In altri modi, con altri mezzi. Perché la vita non regala mai la soluzione, bisogna trovarla da sé.
La mia prima vittoria” racconta, “è stata tre anni fa, a Simpelveld, in Olanda. E’ stata una strana e meravigliosa sensazione. Vincere la prima gara è sempre qualcosa di speciale. Credo sia così per tutti quanti.

L’anno scorso ha firmato un contratto con la BMC Devo Team. Manca un passo, un solo passo al professionismo, anche se dovrà guadagnarselo come tutte le cose avute fino a qui. Come tutte le cose nel ciclismo. Non ci sono regali, né sconti. “Per me questa squadra è la migliore del mondo!” dice. “Allora, ai tempi dell’infortunio, non mi sarei mai immaginato di poter arrivare fin qui. Non avrei mai nemmeno osato sognarlo! Coi ragazzi mi alleno e mi diverto. Io penso che per fare buoni risultati devi mischiare il divertimento al piacere di allenarsi.
Quando gli si chiede cosa sogna per il suo futuro risponde: “Ora tutto è cambiato. Prima volevo fare il calciatore. Ora voglio diventare un ciclista professionista e vorrei vincere una grande classica. Ho imparato molto da quella mattina d’inverno. E’ stata una grande lezione.

Sì, una lezione. Cruda, improvvisa e quasi senza senso. Eppure succede sempre così. A distanza di tempo, poco o tanto che sia, riusciamo a ricollegare con un filo invisibile tutti gli avvenimenti e ci accorgiamo che hanno uno strano disordinato disegno, tipico delle nostre esistenze un po’ scombinate. Malgrado tutto, malgrado il fatto che della strada che percorriamo riusciamo a vedere solo pochi metri, a volte siamo in grado di comporre il destino. In ogni curva a gomito c’è un cambio di rotta. In ogni nuova rotta c’è una scelta, un vento giusto da seguire. Si può anche subire la tempesta, restarne scombussolati, piangere, restare senza forza, sentirsi finiti. Quello che conta è cosa saremo dopo. Quello che avremo tirato fuori da noi stessi per uscirne. So da tanto che si può sopportare tutto pur di essere un po’ più vicini al luogo dove vogliamo essere. Da sempre o da poco, non importa. Perchè il tempo non può misurare l’intensità di un sogno. Soprattutto se è nuovo e ha spazzato tutte le certezze. Ricominciare da capo è il modo migliore per riprendere forza e per ritrovare sé stessi. Davvero.

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