Ci sono film che nascono già come piccoli cult, di nicchia, amatissimi soprattutto dal pubblico più giovane. È il caso di Sogni di gloria di John Snellinberg.
Per chi non lo sapesse, dietro lo pseudonimo di John Snellinberg si nasconde un manipolo di studiosi di cinema e videomaker che ha il proprio quartier generale a Prato e dintorni. Progetti a basso budget (fino ad ora) che colmano ciò che manca a livello finanziario con il contenuto delle idee e la freschezza di chi ha davvero voglia di fare cinema, con passione e vitalità. Sogni di gloria si situa in questo mood e nell’amato limbo tra cinema d’autore e b-movie. Un lavoro collettivo, di concertazione e sentimento, che a prima vista può apparire acerbo, ma a ben vedere è sintomo di uno stile già definito, di quelli inossidabili, che sanno distinguersi dalla massa. Il seme di tutto ciò era già visibile nel film d’esordio, La banda del Brasiliano. Sogni di gloria fa un passo in più facendo tesoro di una prolungata e attenta osservazione della commedia toscana fino ad oggi, rispolverando e rielaborando qualcosa di Monicelli, Benvenuti, Pieraccioni.
I sogni di gloria si articolano in due episodi con protagonisti due personaggi dallo stesso nome: Giulio. Nel primo caso è un giovane cassintegrato sospeso dalla zia tra casa e chiesa, tra un lavoro che non c’è e una sovrabbondanza di preghiere per invocarlo. Nel secondo caso è un giovane cinese arruolato dal vecchio Maurino per giocare a carte nella bisca di un baretto di quartiere. Il filone del lavoro e della rivalsa, come quello del gioco delle carte (basti pensare a Regalo di Natale di Pupi Avati, anch’esso film a basso budget che fece di necessità virtù in seguito ai costosi precedenti flop del regista bolognese), sono oramai consolidati nel cinema italiano. John Snellinberg guarda a quelli con rinnovato vigore e coscienza cinefila. Infatti nel brillante primo episodio, nella contrapposizione piazza-Provvidenza dove la volontà dell’uomo arriva dove non può arrivare Dio, strizza l’occhio ai film di Fernandel, mentre nel più crepuscolare secondo episodio richiama all’amara commedia all’italiana. Mi riferisco a quella caustica di Dino Risi, dai cui Mostri paiono estrapolati i personaggi del Disumano e delle Sposine, e a quella disincantata di Monicelli, con un finale che nell’estetica del personaggio dello zio, tramite quel cappello e quella sciarpetta dal sapore anche un po’ felliniano, richiama al professor Sassaroli (Adolfo Celi) e al conte Mascetti (Ugo Tognazzi) di Amici miei. Un finale che, tra l’altro, ha un retrogusto poetico e malinconico se pensiamo che Sogni di gloria è stata l’ultima apparizione di Carlo Monni, il quale mette da parte l’abituale recitazione rabbiosa per indossare le vesti del saggio che riflette su “la vita è un gioco” e “il gioco della vita”.
Insomma, per John Snellinberg Sogni di gloria ha tutte le carte in regola per trasformare quei sogni in realtà. La gloria ancora non è piena, ma ci siamo vicino.
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