Lo Stato “moderno”, sia esso democratico, oligarchico, o ancora monarchico, presuppone che i suoi sudditi, o cittadini se si preferisce, gli siano sottoposti. Allo Stato si deve comunque incondizionata ubbidienza. Anche il “demos”, si dice infatti, lasciando cadere nell’oblio quegli individui di cui dovrebbe essere composto, deve democraticamente ubbidire a sé stesso, alla maggioranza. E così anche oggi, questo Stato, per usare una fortunata allegoria di hobbesiana memoria, rimane ancora un informe Leviatano: immenso super-individuo formato dalle teste di tutti gli altri individui. Un monstrum composto da una moltitudine di volontà individuali, ma che si muove come un corpus singolo, comune, e che possiede un'unica volontà, la sua! Eppure, nonostante la mistificante voglia di democrazia, ogni modalità statale, specie quella che si propone, costituzionalmente, di fornire un contenitore per dar forma al vuoto, si comporta sempre, alla fin fine, con la sicurezza e la superiorità di un padre-padrone nei confronti dei propri eternamente minori figli. Lo Stato infatti, per continuare a perpetuarsi nel suo statuito ruolo, abbisogna dell'inerzia individuale, vuole che quei "figli" permangano nella loro precarietà esistenziale per sempre; si nutre della paura trasformandola in soggezione. A tal proposito, anche il nostro democratico Stato sovrano, benché composto da una massa d’individui disposti (o meglio obbligati, dato che nessuno ha mai sottoscritto nessun “contratto sociale” con esso o con la società) a legittimarne, con l’adesione, la sovranità, non si comporta diversamente da un bizzoso monarca assoluto. E lo fa spesso, per soprammercato, in maniera più subdola e sottile rispetto ad un imparruccato aristocratico dell’ancien régime. Lo si vede anche dalle piccole cose. Siamo infatti noi cittadini a formarlo, a dargli una liceità, identificandolo. Eppure, beffardamente, è invece lo Stato, attraverso l’obbligatorio documento d’identità, che ci identifica legalmente in quanto persone. Esemplificazioni a parte, qualsiasi cosa vorremmo diventare o desidereremmo essere, d’accordo con la sacralità della legge democratica, dobbiamo prima chiederne il permesso, e l’idoneità, proprio allo Stato. Io ricevo quindi tutto dallo Stato, senza di esso non ho niente, anche ciò che è mio, e mi va pure peggio di Ulisse, perché in esso non sono neppure nessuno. Stirner, nella fattispecie, ci aveva probabilmente visto lungo: “nello Stato ci sono solo uomini liberi che vengono costretti a un’infinità di cose dallo Stato e dalla legge”. Per esso siamo infatti tutti uguali esclusivamente in qualità di cittadini (bourgeois-borghesi) e uomini “politici” (della polis. Chissà perché la politica, e le istituzioni più in generale, sono della città-polis e non possono mai essere della campagna, dei monti, ecc… l’urbecentrismo ha vinto la partita democratica, nella civile civitas tutto è infatti massa e “buon” vicinato!). Sembra infatti che nella sua fredda impersonalità non riesca proprio a considerarci come individui, persone, semplicemente singoli. Anche per questo, non riesco proprio a comprendere il senso di sconforto da cui vengono colte alcune persone che si sentono abbandonate dal quello Stato assoluto. Io vorrei invece che mi lasciasse solo, singolo, autonomo, indipendente pur nell’impossibilità, reale, di esserlo davvero. Vorrei anzi che mi togliesse, assieme ai titoli legali coi quali certifica, di volta in volta, la mia salute, la mia idoneità, il mio merito e la mia professionalità, persino i diritti acquisiti, perché, fuor di metafora, se tutti fossimo uguali non avremmo bisogno di diritto alcuno! Non so, e sicuramente è solo la vertigine momentanea di un capogiro, eppure preferirei forse la società chiusa, verticale, tripartita in ordini (“stati”), fortemente gerarchizzata, medievale. Almeno a quell’epoca, gli uomini, seppur per “sragioni” quali l’ingiustizia, l’ignoranza e il fanatismo latenti, sarebbero stati considerati per quello a cui erano più prossimi: uomini diversi l’uno dall’altro e non invece, con la protervia che contraddistingue la contemporaneità, cittadini uguali (per decreto) ma anonimi. Alla vaporosa sicurezza concessami dallo Stato (con la sua forza può però perseguirti quando vuole, sia pur per ragioni legali, ma anche per cavilli burocratici o per inefficienza del suo enorme apparato, o magari anche solo per capriccio o spirito vendicativo. Della serie: lo Stato ti assicura e ti salvaguarda dall'insicurezza, ma non ti assicura e non ti difende dallo Stato), preferisco la strada perigliosa e insicura dell’individualità.
Magazine Opinioni
Lo Stato è il mezzo più necessario d’ogni altro per
lo sviluppo totale dell’umanità (…) ma se vorremmo sviluppare noi stessi, non
potrà esserci che di ostacolo.
M. Stirner
Lo Stato “moderno”, sia esso democratico, oligarchico, o ancora monarchico, presuppone che i suoi sudditi, o cittadini se si preferisce, gli siano sottoposti. Allo Stato si deve comunque incondizionata ubbidienza. Anche il “demos”, si dice infatti, lasciando cadere nell’oblio quegli individui di cui dovrebbe essere composto, deve democraticamente ubbidire a sé stesso, alla maggioranza. E così anche oggi, questo Stato, per usare una fortunata allegoria di hobbesiana memoria, rimane ancora un informe Leviatano: immenso super-individuo formato dalle teste di tutti gli altri individui. Un monstrum composto da una moltitudine di volontà individuali, ma che si muove come un corpus singolo, comune, e che possiede un'unica volontà, la sua! Eppure, nonostante la mistificante voglia di democrazia, ogni modalità statale, specie quella che si propone, costituzionalmente, di fornire un contenitore per dar forma al vuoto, si comporta sempre, alla fin fine, con la sicurezza e la superiorità di un padre-padrone nei confronti dei propri eternamente minori figli. Lo Stato infatti, per continuare a perpetuarsi nel suo statuito ruolo, abbisogna dell'inerzia individuale, vuole che quei "figli" permangano nella loro precarietà esistenziale per sempre; si nutre della paura trasformandola in soggezione. A tal proposito, anche il nostro democratico Stato sovrano, benché composto da una massa d’individui disposti (o meglio obbligati, dato che nessuno ha mai sottoscritto nessun “contratto sociale” con esso o con la società) a legittimarne, con l’adesione, la sovranità, non si comporta diversamente da un bizzoso monarca assoluto. E lo fa spesso, per soprammercato, in maniera più subdola e sottile rispetto ad un imparruccato aristocratico dell’ancien régime. Lo si vede anche dalle piccole cose. Siamo infatti noi cittadini a formarlo, a dargli una liceità, identificandolo. Eppure, beffardamente, è invece lo Stato, attraverso l’obbligatorio documento d’identità, che ci identifica legalmente in quanto persone. Esemplificazioni a parte, qualsiasi cosa vorremmo diventare o desidereremmo essere, d’accordo con la sacralità della legge democratica, dobbiamo prima chiederne il permesso, e l’idoneità, proprio allo Stato. Io ricevo quindi tutto dallo Stato, senza di esso non ho niente, anche ciò che è mio, e mi va pure peggio di Ulisse, perché in esso non sono neppure nessuno. Stirner, nella fattispecie, ci aveva probabilmente visto lungo: “nello Stato ci sono solo uomini liberi che vengono costretti a un’infinità di cose dallo Stato e dalla legge”. Per esso siamo infatti tutti uguali esclusivamente in qualità di cittadini (bourgeois-borghesi) e uomini “politici” (della polis. Chissà perché la politica, e le istituzioni più in generale, sono della città-polis e non possono mai essere della campagna, dei monti, ecc… l’urbecentrismo ha vinto la partita democratica, nella civile civitas tutto è infatti massa e “buon” vicinato!). Sembra infatti che nella sua fredda impersonalità non riesca proprio a considerarci come individui, persone, semplicemente singoli. Anche per questo, non riesco proprio a comprendere il senso di sconforto da cui vengono colte alcune persone che si sentono abbandonate dal quello Stato assoluto. Io vorrei invece che mi lasciasse solo, singolo, autonomo, indipendente pur nell’impossibilità, reale, di esserlo davvero. Vorrei anzi che mi togliesse, assieme ai titoli legali coi quali certifica, di volta in volta, la mia salute, la mia idoneità, il mio merito e la mia professionalità, persino i diritti acquisiti, perché, fuor di metafora, se tutti fossimo uguali non avremmo bisogno di diritto alcuno! Non so, e sicuramente è solo la vertigine momentanea di un capogiro, eppure preferirei forse la società chiusa, verticale, tripartita in ordini (“stati”), fortemente gerarchizzata, medievale. Almeno a quell’epoca, gli uomini, seppur per “sragioni” quali l’ingiustizia, l’ignoranza e il fanatismo latenti, sarebbero stati considerati per quello a cui erano più prossimi: uomini diversi l’uno dall’altro e non invece, con la protervia che contraddistingue la contemporaneità, cittadini uguali (per decreto) ma anonimi. Alla vaporosa sicurezza concessami dallo Stato (con la sua forza può però perseguirti quando vuole, sia pur per ragioni legali, ma anche per cavilli burocratici o per inefficienza del suo enorme apparato, o magari anche solo per capriccio o spirito vendicativo. Della serie: lo Stato ti assicura e ti salvaguarda dall'insicurezza, ma non ti assicura e non ti difende dallo Stato), preferisco la strada perigliosa e insicura dell’individualità.
Lo Stato “moderno”, sia esso democratico, oligarchico, o ancora monarchico, presuppone che i suoi sudditi, o cittadini se si preferisce, gli siano sottoposti. Allo Stato si deve comunque incondizionata ubbidienza. Anche il “demos”, si dice infatti, lasciando cadere nell’oblio quegli individui di cui dovrebbe essere composto, deve democraticamente ubbidire a sé stesso, alla maggioranza. E così anche oggi, questo Stato, per usare una fortunata allegoria di hobbesiana memoria, rimane ancora un informe Leviatano: immenso super-individuo formato dalle teste di tutti gli altri individui. Un monstrum composto da una moltitudine di volontà individuali, ma che si muove come un corpus singolo, comune, e che possiede un'unica volontà, la sua! Eppure, nonostante la mistificante voglia di democrazia, ogni modalità statale, specie quella che si propone, costituzionalmente, di fornire un contenitore per dar forma al vuoto, si comporta sempre, alla fin fine, con la sicurezza e la superiorità di un padre-padrone nei confronti dei propri eternamente minori figli. Lo Stato infatti, per continuare a perpetuarsi nel suo statuito ruolo, abbisogna dell'inerzia individuale, vuole che quei "figli" permangano nella loro precarietà esistenziale per sempre; si nutre della paura trasformandola in soggezione. A tal proposito, anche il nostro democratico Stato sovrano, benché composto da una massa d’individui disposti (o meglio obbligati, dato che nessuno ha mai sottoscritto nessun “contratto sociale” con esso o con la società) a legittimarne, con l’adesione, la sovranità, non si comporta diversamente da un bizzoso monarca assoluto. E lo fa spesso, per soprammercato, in maniera più subdola e sottile rispetto ad un imparruccato aristocratico dell’ancien régime. Lo si vede anche dalle piccole cose. Siamo infatti noi cittadini a formarlo, a dargli una liceità, identificandolo. Eppure, beffardamente, è invece lo Stato, attraverso l’obbligatorio documento d’identità, che ci identifica legalmente in quanto persone. Esemplificazioni a parte, qualsiasi cosa vorremmo diventare o desidereremmo essere, d’accordo con la sacralità della legge democratica, dobbiamo prima chiederne il permesso, e l’idoneità, proprio allo Stato. Io ricevo quindi tutto dallo Stato, senza di esso non ho niente, anche ciò che è mio, e mi va pure peggio di Ulisse, perché in esso non sono neppure nessuno. Stirner, nella fattispecie, ci aveva probabilmente visto lungo: “nello Stato ci sono solo uomini liberi che vengono costretti a un’infinità di cose dallo Stato e dalla legge”. Per esso siamo infatti tutti uguali esclusivamente in qualità di cittadini (bourgeois-borghesi) e uomini “politici” (della polis. Chissà perché la politica, e le istituzioni più in generale, sono della città-polis e non possono mai essere della campagna, dei monti, ecc… l’urbecentrismo ha vinto la partita democratica, nella civile civitas tutto è infatti massa e “buon” vicinato!). Sembra infatti che nella sua fredda impersonalità non riesca proprio a considerarci come individui, persone, semplicemente singoli. Anche per questo, non riesco proprio a comprendere il senso di sconforto da cui vengono colte alcune persone che si sentono abbandonate dal quello Stato assoluto. Io vorrei invece che mi lasciasse solo, singolo, autonomo, indipendente pur nell’impossibilità, reale, di esserlo davvero. Vorrei anzi che mi togliesse, assieme ai titoli legali coi quali certifica, di volta in volta, la mia salute, la mia idoneità, il mio merito e la mia professionalità, persino i diritti acquisiti, perché, fuor di metafora, se tutti fossimo uguali non avremmo bisogno di diritto alcuno! Non so, e sicuramente è solo la vertigine momentanea di un capogiro, eppure preferirei forse la società chiusa, verticale, tripartita in ordini (“stati”), fortemente gerarchizzata, medievale. Almeno a quell’epoca, gli uomini, seppur per “sragioni” quali l’ingiustizia, l’ignoranza e il fanatismo latenti, sarebbero stati considerati per quello a cui erano più prossimi: uomini diversi l’uno dall’altro e non invece, con la protervia che contraddistingue la contemporaneità, cittadini uguali (per decreto) ma anonimi. Alla vaporosa sicurezza concessami dallo Stato (con la sua forza può però perseguirti quando vuole, sia pur per ragioni legali, ma anche per cavilli burocratici o per inefficienza del suo enorme apparato, o magari anche solo per capriccio o spirito vendicativo. Della serie: lo Stato ti assicura e ti salvaguarda dall'insicurezza, ma non ti assicura e non ti difende dallo Stato), preferisco la strada perigliosa e insicura dell’individualità.