Magazine Diario personale

Sola con valigia.

Creato il 07 agosto 2014 da Denise D'Angelilli @dueditanelcuore

“Entra a comprarti una bottiglietta d’acqua per il viaggio”.
“Ma non mi serve, ne ho una in borsa”.
“Compra quello che vuoi, ecco cinque euro, magari un panino, ti aspetto qui”.
Entro, prendo un kit kat per te e un ovetto kinder per me. Esco e sei appoggiato al muro, con la testa bassa. Corro perché penso che ti stia sentendo male e invece piangi. Non è la prima volta che lo fai davanti a me, ma ogni volta è come se avessi a che fare con un mangiamorte. Mi si congela il cervello, tu passi dall’essere Tony Stark a una comune persona vulnerabile, gli occhi ti diventano piccoli e rossi e la voce si strozza nella gola e quello che arriva alle mie orecchie è un sussurro anche un po’ stridulo. Gli uomini che piangono ti tolgono ogni briciolo di forza, ti lasciano come le lenzuola stese quando c’è vento. Si nascondono la faccia per non fartelo vedere ma quando provi a nasconderti sei ancora più visibile.
“Ma che cazzo fai?”
“Non lo so se potrò venire a trovarti, non lo so se ce la farò stavolta, sei vicina ma sei anche lontana, salire e scendere dal treno…”
“Ti ho detto che sarò a casa una volta al mese, ti ho detto che non c’è bisogno che venga tu”.
“Sì ma se poi…”
“Ti ho già detto che passerà.”

Provo a mantenere un certo contegno perché ho capito che dei due quella che porta l’altro sulle spalle sono io. Me ne vado e ti lascio qua, sei sicuro di essere tu il debole?

“Però tu avvisami perché il biglietto te lo pago io, ti metto i soldi lì, come si chiama, te li spedisco”.
“Si chiama postepay ma non serve, ce li ho i soldi”.
“Ma se poi vuoi andare al cinema? Tu vai sempre al cinema. Pago io”.
Puoi avere anche il lavoro meglio pagato del mondo, ma sarai sempre quella che ha bisogno di soldi e che quando torna a casa trova un paio di scarpe o delle mutande nuove o un pigiama perché l’affitto te lo paghi da sola e te le meriti, ti spingono a essere indipendente ma poi quando lo diventi si sentono meno importanti e vogliono partecipare alla tua vita non solo con una telefonata la sera.
“Ogni sera, alle nove, non importa cosa stai facendo o cosa sto facendo io, o dove siamo, alle nove, ogni sera, per piacere”.
“Ogni sera alle nove, sì, poi un sms la mattina, uno se mi succede qualcosa di bello durante il giorno e non posso proprio aspettare la sera per dirtelo, poi una foto a settimana per farti vedere che mangio e che non ho i capelli verdi, una foto se vedo qualcosa di bello. Te lo prometto. Adesso asciugati queste lacrime, papà.”

In macchina la musica è a un volume troppo alto ma questo disco ci piace, tamburelli con le dita sul volante come fanno tutti i batteristi del mondo. Io controllo tutti i social dal telefono e tu mi dici che prima o poi i miei pollici smetteranno di funzionare, ti rispondo che tutti quelli della mia generazione e quelli delle generazioni dopo la mia sono così e che non possiamo discutere sempre delle stesse cose, che palle, non possiamo solo cantare? E cantiamo inventando tutte le parole, soprattutto tu.

Adesso è sempre tutto un: “Ti accompagno io?”
“No vado da sola, posso prendere il treno o la navetta, non ti preoccupare”
“Ma perché scusa hai le valigie, a me non pesa, così ci salutiamo”.
“Ho detto di no, non serve, vado da sola”.

C’è che è bello camminare per i posti affollati da sole, guardare le persone salutarsi, immaginare dove stiano andando, per quanto tempo, se torneranno mai indietro. Sentirsi osservata mentre gli altri si pongono le stesse domande, si chiedono come ti sia potuto venire in mente di comprare una valigia fuxia Barbie. Ricordare com’era calpestare insieme il pavimento della stazione Termini e sentirti ancora spingere la mia valigia al mio fianco, e quella ragazza che non riesce a camminare sui tacchi, l’hai vista? E quando me lo porti tu a casa un fidanzato che ti viene a salutare alla stazione?

Io non voglio nessun’altro diverso da te alla stazione, papà. Nessun’altro mi farà le tue sciocche raccomandazioni e mi darà una pacca sul sedere per spingermi a salire sul treno. Sei sempre stato tu, e non vedo perché dovrei voler cambiare. Ci abbiamo provato a sostituire quel nostro momento ma non ha funzionato, e allora cammino con una falcata da donna in carriera che non ha bisogno di nessuno se non del proprio cellulare nella sala d’attesa, attraverso le stazioni e gli aeroporti, mangio da sola, leggo, porto le cuffie così non mi disturbano, mi sento invincibile. Immagino di essere una di quelle donne che un giorno è a Milano e un giorno è a New York e che non ha bisogno di essere accompagnata perché per lei il viaggio è solo una cosa normale come lavarsi i denti la mattina.
Ci sono quelli che non si staccano fino a che una porta del treno non si frappone tra loro o fino a che la sicurezza aeroportuale dice loro “oltre questo metal detector lei non può andare” e quelli che ti lasciano al parcheggio perché lasciare la macchina lì costa troppo. E allora scusa ma potevi pagarmi un taxi. Poi c’eri tu, che il parcheggio lo pagavi anche se costava venti euro pur di stare con me una manciata di minuti in più e controllare che avessi il telefono carico e che le ruote del trolley non si spaccassero nel tragitto. Poi il parcheggio è diventato facile da trovare perché le persone speciali hanno un cartellino che li contraddistingue dagli altri, accompagnato da una camminata più lenta e l’impossibilità di fare troppi passi. Quei posti le persone stupide li rubano pensano che siano lì a caso. Quando gli serviranno capiranno perché esistono.
“Avvisami quando sei arrivata e poi…”
“Quante volte sono partita? Sì, lo so, adesso fammi andare.”
Le mani che salutano e gli occhi che luccicano, il gesto del “telefonami” e poi qualche linguaccia. E poi via.

Attendere da sole ci permette di fumare dieci sigarette, di svuotare la macchinetta degli snacks, di controllare nervosamente il tabellone delle partenze e quello del proprio binario anche se sì, è quello, e siamo in netto anticipo, di sederci con i piedi sulla panchina o di tirare indietro il culo sul muretto e lasciare le gambe penzolare, di ritagliarci un piccolo momento solo per noi prima del vicino di posto che parlerà al cellulare per tre ore, del bambino che piangerà disturbando tutto il vagone, del masticatore a bocca aperta, del carrello del caffè. Gli arrivederci lasciamoli a chi sa sostenerli, io non ci riesco più.

E allora, che senso ha farmi venire a prendere da qualcun’altro che non sei tu?



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