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Soldati suicidi israeliani e leve obbligatorie

Creato il 30 settembre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

Sono 3 i soldati delle Forza di Difese Israeliane (Idf) che si sono uccisi da quando l’ultimo conflitto con Hamas nella Striscia di Gaza è terminato.
Il dato è stato mostrato dal popolare e moderato quotidiano israeliano Maariv. Il giornale ha precisato che le 3 unità facevano parte della Brigata di Fanteria Ghivati, e avevano partecipato alle operazione di terra sul territorio palestinese.
Sempre il quotidiano di Tel Aviv precisa che – aspettando i dati conclusivi del 2014 – nello scorso anno i morti per suicidio all’interno dell’esercito israeliane sono stati 8. Fin ad ora il numero più basso dalla creazione dell’Idf, creato nel 1948.
Sono note le campagne dell’esercito israeliano per evitare atti di suicidi al proprio interno, destabilizzanti e controproducenti alla (perenne) propaganda di consensi entro i confini di Israele.

Questi dati, è vero di esili entità, potrebbero però contenere al suo interno ramificazioni concettuali di notevole sostanza. Impressioni e giudizi pur sempre caratterizzati da un alto livello opinabilità. Come spesso accade quando si parla di teorie psico-sociali del suicidio (e di nome non facciamo Emile Durkheim) di Israele e del suo peculiare esercito.

L’aggiunta di notizie riguardo disertori e conseguenti detenzioni in galera, critiche interne verso l’operato di Netanyahu, giunte addirittura da veterani e membri dell’esercito, danno una certa parvenza di crepa nella quasi sempre “totale” popolarità delle scelte e delle attuazioni delle operazioni strutturali e di azione dell’esercito e del governo Israeliano.

Utile è precisare il tipo di servizio di leva militare presente in Israele. Tale reclutamento, obbligatorio, è esteso anche alle donne. Per gli uomini il servizio è previsto per 36 mesi, per le donne 2 anni. Lo scorso febbraio fece scalpore, scatenando accesi dibattiti, la notizia dell’estensione della leva anche ai ragazzi ebrei ultraortodossi, la maggior parte di tale popolazione non occupa in Israele nessuna occupazione. Secondo tale decreto, gli ultraortodossi esentati dal servizio militare ogni anno non potranno essere più di 1.800, scelti sulla base di meriti prettamente scolastici.
Questo rigido servizio di leva ha sempre stupito e spiazzato una certa parte dell’opinione pubblica occidentale. Un altro ramo di pensiero considera invece tale caratteristica, fondamentale e necessario visto il passato bellico del Paese.
I più critici hanno sempre denunciato le gravi conseguenze psicologiche per alcuni ragazzi israeliani costretti a tale servizio di 2 o 3 anni di leva, sopratutto durante le fasi di guerra, e sopratutto per chi di guerra (o di esercito) proprio non ne voleva sentire parlare.
Fra i più favorevoli a questa iniziativa tipica invece, il senso della patria, la preparazione civica e di responsabilità dei ragazzi  e la prontezza ad eventuali attacchi dall’esterno – come successo i tempi passati – rendono il servizio di leva israeliano unico per qualità al mondo.
Di certo bisognerà accertare, aspettando gli aggiornamenti delle agenzie, se i 3 soldati suicidi abbiano preso parte alle operazioni di “Protective Edge – nome dell’ultima azione contro Hamas – da reclute di leva o da unità assoldate pienamente nell’esercito.

Negli Stati Uniti, forte alleato bellico e ideologico di Israele, il Presidente Ford abolì, negli anni 70 la leva obbligatoria. I dibattiti che ne susseguirono furono forti, con Jimmy Carter successivamente che ne propose un reintegro, poi bocciato. Ad oggi la leva rimane facoltativa, ma il Congresso, organo legislativo degli States, detiene il potere di reinserimento del servizio di leva obbligatoria senza modifica di legge. Insomma l’obbligatorietà risulta solo “sospesa”
Dunque in un paese con una popolazione di 316 milioni di persone e un numero di soldati arruolati nell’United States Army che ruota attorno al milione e cento unità, quali sono i dati relativi al tasso di suicidi, all’interno di essi? Il numero varia quasi costantemente su un 1 morto al giorno. Nel mese di luglio di quest’anno si è toccato il picco più alto con 32 soldati che si sono tolte la vita. Nel 2012 nei primi 155 giorni dell’anno, già 154 reclute statunitensi aveva deciso di uccidersi. Dato superiore del 50% rispetto ai morti causati dagli scontri coi talebani. L’anno prima, nel 2011, i suicidi furono complessivamente “solo” 130. Lo slogan “Gli Usa provocano più morti dei nemici Taliban” toccò in quei mesi molte bocche di pacifisti o critici del conflitto
Tralasciando per motivi di attinenza, ma a malincuore, tutto il mondo di abusi sessuali, depressioni, veterani e reduci in terapia, il problema dei disagi all’interno delle armi pervade costantement gli Stati Uniti, e coinvolge, anche se in maniera minore, ogni paese del Mondo.

Il suicidio dei tre soldati israeliani porterà, nel bene o nel male, alla ribalta il dibattito sulla lunga leva obbligatoria in Israele. E considerare tale elemento come variabile dipendente al tasso di suicidi appare più che legittimo per alcuni, e assurdo per altri. Alienare e isolare i 3 casi come fattore normale della dimensione statistica o andare a fondo nei disagi psicologici e sociali delle vittime, rilevando problemi sistemici?

A fine luglio i giornali hanno parlato di Udi, disertore di 19 anni, che ha preferito 6 mesi di carcere alla partecipazione ai bombardamenti e alle operazioni via terra che in quei giorni infiammavano la Palestina. In un paese dove l’86% si riteneva favorevole all’operazione “Protective Edge” di quei mesi (secondo un sondaggio del “Jerulasem Post”), disertare e  andare contro la convinzione maggioritaria di un conflitto più che giusto e necessario, rappresentava un vero atto significativo di non-forza. Alcune decine di ragazzi e ragazze hanno fatto come Udi ripudiando l’idea di partecipare a quella guerra che, dal 8 luglio al 24 agosto 2014 ha provocato la morte di 1.462 civili, 265 miliziani e 377 morti non identificati tra i palestinesi, 66 soldati e 6 civili israeliani.
Nello stesso mese 50 soldati delle forze belliche di Israele si opposero a qualsiasi incarico sui territori di West Bank (Cisgiordania) esprimendo inoltre disapprovazione alla leva obbligatoria.

A marzo 2014, due mesi prima dell’inizio dell’ultimo conflitto, 50 studenti scrivevano al Premier Netanyahu un comunicato in cui si denunciava e si rifiutava il reclutamento obbligatorio nell’Idf. Le cause, oltre a una negazione del servizio militare, la violazione dei diritti sull’uomo che Israele starebbe perpetuando nel tempo nei territori occupati, con crimini di guerra riconosciuto dalla comunità internazionale.
Vengono chiamati “refusenik”, movimento di giovani, che seppur minoritario, si oppone alla politica di uno stato occupazionista ed espansionista a danni di un’altra popolazione. Tale gruppo di ragazzi potrebbe rappresentare un segnale di una crisi politico-sociale che Israele sta vivendo al suo interno. Una “falla del sistema” che, nonostante le ridotte dimensioni, grazie alla connettività della sfera pubblica internazionale potrebbe allargare le sue forme.
A questi gruppi di obiettori, si aggiungono le numerose Ong che tentano da anni di portare alla luce realtà della vita quotidiana dei soldati che prestano servizio nei Territori Occupati. A prova di ciò la nascita di “Breaking the silence”  associazione costituita da un collettivo di soldati veterani dell’Idf che ha come obiettivo quello di mostrare e portare alla luce  le difficoltà che i giovani soldati si trovano ad affrontare nel esercitare il potere e il controllo nei confronti di un’altra popolazione in territori, nella maggior parte dei casi occupati.

 

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