Non posso dire di conoscere i Solefald. Mi ricordo solo che il primo non mi dispiacque – poi tanto buio – e che nell’ultimo ci stavano due pezzi belli e che il resto era fondamentalmente noioso. Allora, quand’è così, non ci badi più di tanto. Li ficchi nel calderone dei gruppi che sì, mo’ che c’ho un attimo di tempo (cioè mai) mi vado a recuperare le cose più vecchie, per cultura personale e buona lì. Chi può dire di conoscerli? Giuliano D’Amico può dire di conoscerli, perché lui è veramente amico di Cornelius. Giuliano, sto per parlare malissimo delle fatiche dei tuoi amici, sappilo. Lo so che dai tempi di Nunzio ad oggi Google è migliorato tantissimo e traduce che è una bomba, e so anche che, forse, l’amico tuo starà leggendo queste mie righe, cionondimeno se non la dico potrei sentirmi male. Veniamo a noi. Per descrivere l’ultimo disco dei Solefald, dirimente è stata la scelta del metodo. Pensavo di buttarla sulla metafora, raccontare una storia di schifo e vergogna per fare un facile parallelismo; ho pensato anche a formule alternative ma poi la scelta è caduta sul classico, fidato, incorruttibile track by track. E allora, vai:
1. World Music with Black Edges. Al minuto 0.53 ho distintamente sentito un ‘Uuuuuh’, giuro, uno di quelli che cantanti dall’ambigua identità sessuale usano per infarcire le canzoni che finiscono nelle compilation allegate al numero estivo di TV Sorrisi e Canzoni. Non faccio in tempo a metabolizzare questa cosa che mi ha fatto male come quando da piccolo hai la febbre e la mamma ti ficca una supposta di tachipirina senza avvertirti del momento preciso in cui te l’avrebbe ficcata, che al minuto 2.07 parte una base tunz tunz tipo quelle delle musiche tetesche tradizionali rivisitate in chiave dance per mettere a loro agio i clienti delle baite tirolesi e motivarli nell’arduo compito di mandar giù knackwurst ripieni di fontina e ricoperti di speck.
2. The Germanic Entity. Dai, ammettetelo, state pensando a lui, sì proprio a lui… Certe volte uno si augura che alcune personalità del passato escano dalla tomba per compiere immondi atti di violenza sulle persone che ti fanno del male (vedi sopra). Su questo pezzo non c’è molto da dire a parte il fatto che a un certo punto (mentre il Cornelio recita qualcosa in un modo parecchio simile al modo di esprimersi di quella personalità alla quale stavate pensando poco fa) parte uno xilofono e io mi chiedo ancora pecché? Volevo mollare tutto e skippare avanti, ma arrivo fino al minuto 6.40 (e fatemi i complimenti, cazzo). Mi devo fermare un attimo a prendere fiato, perché non riparte la base tunz di prima, no, ma una specie di EBM da club fetoso della periferia di Berlino.
3. Bububu Bad Beuys. Annichilito e sconvolto, subisco impotente lo scorrere del tempo, che parte la terza traccia (nessun refuso, è scritta proprio così, Bububu)… E niente, amici miei, vi ho voluto bene. Voglio morire, anzi, sto morendo. Come spiegarvela in due parole? Mmh, diciamo che sembra una via di mezzo tra gli Impaled Northern Moonforest e Mike Patton dei tempi delle sperimentazioni vocali con Zu, ma in preda all’epilessia mentre viene sodomizzato a turno dall’intera squadra di calcio del Camerun, il tutto in versione aggrotech. Allora, uno pensa di essere diventato pazzo, dunque la faccio ascoltare ai miei compari di blog, così, per uscire dall’incubo e avere il conforto di qualcuno che ti capisce, e il pio Luca Bonetta mi fa dio c*** è mezz’ora che rido da solo come un ritardato, cristo, pare che l’abbiano registrato in un manicomio criminale.
4. Future Universal Histories. Sono a pezzi e l’attacco della quarta traccia non mi è affatto di aiuto. Vocine stridule, riff alla cazzo di cane. Poi un cacofonico spoken word con l’eco che mi porta la mente a questa mattina e al rumeno che, sotto casa mia, se ne stava infilato a capa sotto nel cassonetto fino alla cintola a ravanare nella monnezza mentre da dentro chiamava il suo compare.
5. Le Soleil. Penso ai rumeni, alla morte e alla fine di tutti i mali che riparte lo xilofono alla Monkey Island. E qui una bestemmia forte e garrula ci sta tutta, ma mannaggia, guarda. Titolo in francese, testi in francese. Quindi, ricapitolo per i duri di comprendonio: testi in francese e xilofono alla Monkey Island. Ma che è?
6. 2011, or a Knight of the Fail. Il brano di prima non riesco a finirlo e, sull’ennesima nota di xilofono, skippo. Qui si reppa. Sì, amici del vero metallo e non di questa merda di musica di merda, qui parte il rap. Ok, vado a pisciare.
7. String the Bow of Sorrow. (scusate, sono ancora al bagno)
8. Oslo Melancholy. Mentre sto tornando in stanza sento le ultime note del pezzo di prima e per la prima volta in vita mia ringrazio la Madonna (che è finito). Poi niente, arriva Richelieu, mi distraggo, mi metto a giocare con lui e gli faccio Bububù! Bububù! Tolgo questa roba e per farlo contento metto su Fallen, che al mio cane è piaciuto tanto. (Charles)