Le vite che non abbiamo vissuto sono, forse, quelle che ci appaiono più interessanti. Magari ci avrebbero fatto battere di più il cuore o, chissà, ci avrebbero fatto soffrire di più di quella che abbiamo realmente avuto.
Solo, l’intenso romanzo di Rana Dasgupta, è la storia dello sradicamento emotivo che caratterizza e, purtroppo, definisce l’epoca moderna. Lo scrittore angloindiano è dotato di grande sensibilità artistica e in questo suo secondo romanzo (tradotto da Silvia Roti Sperti e pubblicato da Feltrinelli) scrive una storia ambientata nella Bulgaria del XX secolo, in cui qualsiasi ideologia politica – ma, in fondo, anche personale – viene messa alla prova mentre una malinconia immensa colma il vuoto dei tempi andati.
È evidente il riferimento ad alcuni grandi scrittori anglosassoni del passato, in particolare a George Orwell, per la sapida critica della società circostante che, talvolta, ci violenta e ci condiziona fin nelle nostre sfere più intime e nascoste. Il protagonista di Solo, il vecchio Urlich, è un marito abbandonato, un padre non considerato, un violinista mancato amante della chimica, oltre che il manager di un’industria socialista mandato in pensione con un misero orologio d’oro e che attraversa fasi storiche difficilissime che cancellano poco per volta, come con un colpo di spugna, momenti e legami importantissimi della sua vita. Fasi critiche, dicevamo: la monarchia filonazista, il socialismo stalinista, la rivoluzione borghese, il capitalismo corrotto.
La storia viene divisa in due movimenti: nel primo Ulrich, molto vecchio e ormai cieco se ne sta chiuso in uno squallido appartamento di Sofia e racconta la sua vita, i suoi amori, le sue passioni che, specie quelle professionali, insieme alle ambizioni, vengono uccise dall’avvento del comunismo e, successivamente, dal capitalismo selvaggio. Analizzando i fallimenti, Ulrich si rende conto che le sue frustrazioni sono state terreno fertile per una vita sognata, un’esistenza immaginata.
Nel secondo, attraverso un rapido balzo, veniamo scaraventati dal passato al presente: si passa dalla vita vissuta a quella sognata, che va dal successo nella società post comunista dei figli di Ulrich (nonostante, appunto, il comunismo) a Boris, musicista bulgaro poverissimo che diventa una grande star mondiale.
Tutti, secondo la lezione (per carità, involontaria!) dell’autore possono riscattarsi da un vita stupida e magari addirittura meschina, immaginando situazioni diverse e più soddisfacenti. Non per forza sempre più positive, ma diverse, nuove, ignote. Altre vite di nostri alter ego, insomma. L’intreccio di reale e immaginato, così come di emozioni e scienza, è sapiente e avvolge con lo stile fluido col quale viene raccontato. Dasgupta, figlio di un’inglese e di un indiano, è nato a Canterbury il 5 novembre del 1971, ha studiato letteratura a Oxford e si è avvicinato alla Bulgaria grazie alla sua grande passione per la musica folk bulgara, rimasta – incredibile a dirsi – incontaminata dopo ben cinquecento anni di dominazione turca. Non fa mistero di essersi ispirato alla vita del padre per il personaggio di Urlich.
Anche lui, come il personaggio protagonista del libro, ha dovuto fronteggiare periodi terribili, come quello della Partition che ha separato l’India dal Pakistan nel 1947. Solo è l’occasione, per questo bravo scrittore “commistionato” - sia dal punto di vista personale che culturale - di poter parlare di un sistema (e forse più d’uno) incancrenito, di una realtà che non sa più regalare gli stimoli giusti per andare avanti, di noi e degli altri che poco o niente facciamo per uscir fuori dal pantano e dalla melma socioculturale che ci avviluppa ogni giorno di più. Si continua a pensare che l’unico grande problema siano l’immigrazione e il nomadismo di culture quando, invece, sono fenomeni inarrestabili che fanno parte della vita: la stessa tecnologia è in continuo movimento ed è una rivoluzione perpetua che ogni giorno un po’ di più ci allontana dal nostro passato. Alla fine siamo tutti un po’ emigranti, se ci pensiamo bene.
Dasgupta vede le persone – tutte, indistintamente – come una grande risorsa, una grande energia seduta, però, purtroppo, su una massa di conflitti sociali, politici ed economici irrisolti. Solo è un romanzo profondo e particolare, la cui trama è spruzzata qua e là di influssi poco accademici ma abbastanza letterari, elementi che per la maggior parte hanno determinato la sua vita e determineranno la sua opera, ancora troppo giovane da poter essere analizzata con acuta precisione.
La formazione di quest’autore appare moderna e abbastanza tradizionale da potersi tradurre nell’immagine di uno scrittore di futuro successo. Il romanzo di Dasgupta segue uno stile narrativo nitido ma carnale ed è elegante pur nella sua semplicità. L’autore ha la pazienza necessaria per scrivere romanzi, l’accuratezza di genere e la forma mentis dell’uomo cosmopolita per passione oltre che per necessità personali. Rana, infatti, ha vissuto in Inghilterra, in Francia, a New York, a Delhi. Proprio nel periodo newyorkese ha abbozzato il progetto di una serie di racconti sulle città contemporanee. Già nel primo romanzo, Tokyo Cancelled, lo scrittore ha composto un ciclo si storie sul modello delle novelle di Giovanni Boccaccio e Geoffrey Chaucer rifacendosi alla classicità per tracciare una mappa immaginaria dei contesti metropolitani attuali.
Rana Dasgupta è di certo una voce interessante del panorama narrativo odierno, uno scrittore compatto ma audace dalla prosa pulita che arriva, però, a raggiungere vette di alto e puro lirismo. Con Solo ha vinto il Commonwealth Prize 2010, ottenendolo soprattutto per essere riuscito a dipingere, con perspicacia e coraggio, il ritratto di un secolo attraverso la storia di un “everyman”, un uomo qualunque, un signore bulgaro come ce ne sono tanti altri. È stato definito da Salman Rushdie (uno dei più grandi scrittori contemporanei, autori di quei Versetti Satanici che tanto lo misero in pericolo) come “il più originale e inaspettato scrittore indiano della sua generazione”. Di certo è un virtuoso della parola e uno scrittore onirico, capace di guardare oltre lo sguardo dell’occhio.
Il pregio di questo libro non è da ricercare tanto nello stile letterario, o nell’utilità o consistenza dei concetti espressi, quanto nella sua aderenza alla verità. E anche nell’immersione nel grande oceano delle cose dimenticate, oltre che in quelle mai vissute ma che “sarebbero potute essere”, nella memoria collettiva, negli archetipi reali e dell’animo come calati in un mondo quasi parallelo di vite dai finali alternativi.
Rana Dasgupta, che di recente è stato moderatore al Jaipure Literature Festival (Festival della letteratura indiano) parla anche di temi attualissimi e complicati, come quello della globalizzazione. Molti scrittori, anzi tantissimi (specie quelli appartenenti a culture doppie come gli angloindiani) stranamente non si sentono genericamente parte di una cultura globale perché incastrati dentro una definizione, ma cittadini del mondo, elementi universali perché capaci di esprimere il proprio sentirsi ed essere una persona, un essere umano. Anche la globalizzazione, in fondo è un’etichetta e il villaggio globale un villaggio solo un po’ più grande degli altri (chissà se Marshall McLuhan ci aveva mai pensato).
È, dunque, un romanzo strepitoso ma strano, Solo. Sembra costruito come un’opera sinfonica e ci fa pensare, riflettendoci meglio, quasi a un appuntamento con la morte, nel senso che il protagonista quando immagina le vite vissute, sa che ormai non c’è più niente da fare e, con un filo (nemmeno tanto poco) di malinconia, immagina quello che sarebbe potuto essere e, invece, non è stato. Un bel romanzo dalle linee forti ed essenziali, un incantesimo che ti prende e ti avvolge, magari con qualche intoppo di significato e di significante. Magari proprio lavorando sul significante sarebbe stato singolare leggere le parole di questo libro in forme di spirale, trapezio, rombo o saetta come le poesie di Dylan Thomas.