Sono giorni belli, giorni pieni, giorni di preoccupazioni, di caldo eccessivo, di gente eccessiva (nelle quantità e nei modi) di processioni sotto casa seguendo, mio malgrado, il flusso dei turisti mentre mi sento sotto la neve finta in una palla di natale con carillon; sono giorni di ragazze che mi ascoltano pare con interesse, di genitori sereni, sarà che ho imparato a parlare – per due ore ad undici persone, per un’ora a loro due – guardando un punto e concentrandomi solo su quello; sono giorni in cui porto un orologio minuscolo sul polso minuscolo al quale, mi raccomando dai sempre la carica e che mi ricorda ogni giorno di quando lei, il pomeriggio davanti allo specchio prima di andare a messa, con l’indice e il pollice della mano destra girava per qualche secondo la rotellina altrettanto minuscola e il ticchettio impercettibile e fortissimo insieme che all’improvviso risuonava nella stanza; sono giorni in cui prendiamo decisioni importanti e pronunciamo parole, performanti, poiché sappiamo che acquistano valore d’essere proprio nell’atto di pronunciarle. Banali, banalissime emozioni borghesi necessarie quando in un attimo ti rendi conto del significato della precarietà.
Sono giorni in cui tra una Parigi ancora un po’ lontana e cosa indossare domani mattina, visualizzo un letto, un divano, una libreria, bicchieri, asciugamani, le tonalità della luce e so che esistono materialmente in un posto e non soltanto nei cassetti della mia immaginazione.
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