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Son poco patriottica

Creato il 11 novembre 2022 da Annalife @Annalisa

Premessa che c’entra poco con il contenuto del libro in questione e si può saltare a piè pari: ho letto (in una recensione) che a molti dà fastidio sentire raccontare il come e il perché della lettura di un libro, e i pensieri che sono a esso collegati, e magari anche le storie che sono nate intorno a esso. Invece a me tutto questo piace, e tanto di più quando, al contrario, le recensioni che leggo parlano di un determinato libro in un unico modo: raccontano tuuuutta la trama.
È quello che mi è successo mentre cercavo notizie sull’ultimo libro dell’anno; ho fatto una prova. Una “recensione” di 1079 parole riserva al commento vero e proprio, dopo un accuratissimo riassunto, le ultime 79; un’altra recensione, confusissima anche nella grafica, le proporzioni sono queste: circa mille parole totali, 135 di citazione di parti del romanzo, 175 di citazione di altri (Tomasi di Lampedusa, Verga), più di duecento parole di analisi storica che mescola Napoli, la Catania dei Malavoglia, la Parigi di Flaubert, le rivoluzioni “popolari” e quella borghese, le solite parole (350) di riassunto (anche questo piuttosto confuso), e 82 parole per il commento vero e proprio. La figura migliore la fa la recensione che su 1132 parole, ne dedica “solo” poco più di novecento a riassunto e citazioni di parti del romanzo, lasciando circa duecento parole alla vera recensione, nella quale sento finalmente discutere di focus del racconto, di impianto narrativo e di scrittura. Fine della Premessa.

Bianco, rosso e verde ma…

Questo per ribadire una cosa che a me infastidisce molto: sentire raccontare ciò che vorresti scoprire leggendo. Anche in questo caso, in cui l’oggetto del narrare è una storia vera, che conoscevo già vagamente, come conoscevo vagamente la storia di alcuni briganti del sud dopo l’Unità (e qui sarebbe bello allontanarsi ancora un po’ dal libro per ricordare di quando, a scuola, portavo quei bei faldoni delle edizioni Laterza – o era Einaudi? – che riproducevano documenti del tempo e sciorinavo lenzuola di carta con tutti gli elenchi di condanna o taglia sui briganti di allora).
In realtà, qui si tratta di una storia molto romanzata e, direi, molto appoggiata al lato romantico di tutta la faccenda: c’è amore filiale, sentimentale e appassionato, per la patria, per l’avvenire e così via; c’è la lotta per un mondo nuovo, la speranza di una vita più giusta, gli entusiasmi garibaldini, l’afflato di equità da essi alimentato e così via.
Su tutto questo si innestano le vicende di un Sud martoriato, sfruttato e trattato come semplice terra di conquista, e poi la profonda miseria, i gesti non sempre nobili dei protagonisti, fino alla scelta di darsi al brigantaggio, che poi tanto scelta non è, ma quasi un percorso obbligato per molti.

L’autore concentra l’attenzione su alcuni di questi aspetti, ma va tenuto conto che il soggetto principale non è lo sfondo reale del tempo ma la donna che dà il titolo (non del tutto azzeccato, secondo me) al libro, Maria Oliverio, tanto è vero che per circa metà è questo il focus della storia. Il racconto si basa su fatti storici ben precisi e documentati (alcuni documenti sono riprodotti tal quali) ma ne dà un’interpretazione non del tutto in linea con quanto avvenne: il romanticismo della scelta, per esempio, e il trasformarsi di una ragazzina di povera estrazione ma istruita che decide di combattere per gli ideali di patria e di giustizia sociale. Nella realtà, la fuga della protagonista verso il brigantaggio fu probabilmente dettata da ragioni di ordine pratico, dovuta alle conseguenze di un gesto terribile che viene raccontato un po’ superficialmente; anche la formazione del protagonista maschile, il brigante Pietro Monaco, se ben raccontata nelle sue prime fasi (nei passaggi da carbonaio a soldato del re a volontario garibaldino a richiamato dall’esercito sardo), è un po’ troppo lineare rispetto allo zigzagare di Monaco da un punto all’altro della legalità a seconda di quanto gli conveniva fare. Poco romantico e poco patriottico.

Sto quindi rimproverando all’autore di non essersi attenuto del tutto alla realtà dei fatti? Certo che no, visto che è un romanzo e che comunque si legge volentieri: dà conto di un Meridione che sopravviveva nell’arretratezza, che vede svanire anche le poche risorse che potrebbe avere e che viene quasi inevitabilmente trascinato alla guerra civile; racconta bene le dinamiche dalla vita del brigante, i rapporti con il potere, con i manutengoli, con le famiglie colpite, eccetera. Bella ma un po’ irrealistica l’evoluzione personale della protagonista, i pensieri che matura, il desiderio di riscatto e così via, anche se per me i personaggi della maestra e della zia Terremoto spiccano più di quello di Maria, risultando modelli più veritieri di lotta ed emancipazione.
Ciò che invece mi stupisce un po’ è il trascurare molti altri aspetti della vicenda reale che avrebbero potuto dare una spinta più profonda e avvincente al tutto.

E ora farò un esempio che non dovete leggere se volete mantenere l’aura romantica che permea il libro: è la storia della sorella Teresa, che qui posso raccontare visto che nel romanzo è trattata in  modo sbrigativo (si comporta come una matta con la puzza sotto il naso e amen): Teresa, di tredici anni più vecchia della protagonista, sposata a 24 anni con un ricco del paese, con tre figli, era infatti notoriamente non solo signora con la puzza sotto il naso ma, come dicono i documenti “donna di perduta fama” (traetene le debite conclusioni), oltre a essere una che, quando Maria viene messa in prigione insieme a lei (per vicende contorte che nel libro non ci sono e che non racconterò), ecco, quando escono di prigione Teresa va in giro a dire che Maria se l’è spassata con i suoi carcerieri, tanto che il marito (Pietro Monaco) prende Maria a fucilate, dopo averla presa spesso, in passato, a botte.
Altro esempio: verso la fine le cose precipitano anche per un tradimento che arriva all’improvviso, fulmine a ciel sereno. Eppure i documenti avrebbero permesso di costruire il crescendo, il maturare dello stesso tradimento, magari lasciando un po’ più di spazio ai briganti e a qualche personaggio che, continuamente citato, rimane a livello di pura comparsa, pur avendo tutte le caratteristiche per essere un antagonista, un ‘vilain’, un cattivone coi fiocchi. Peccato.

Ultima annotazione: viene presentato un Sud in difficoltà, con pochissimi ricchi che profittarono anche della venuta di Garibaldi per rimanere al comando e fare ciò che volevano (bella la delusione di chi, tornato e convinto di trovare tutto rinnovato, ripiomba nella situazione da cui era partito per cambiare il mondo), e i poveri che faticano a mangiare. E fin qui, bene (cioè, male, ma ha senso).
E tuttavia, la sorella con la puzza sotto il naso (che vive in casa senza far niente) pretende carne da mangiare, e la ottiene; a un matrimonio c’è un banchetto luculliano da parte delle stesse persone che hanno un padre che si sta ammalando per il troppo lavoro e il poco cibo, e altri esempi simili. Ecco, questo stride un po’. In definitiva, quindi, un romanzo piacevole, che affonda le radici nella Storia ma spesso se ne libera (il brigantaggio non è stato tutto romantico e ideale, anzi); che tenta un racconto eroico ma rimane in superficie pur avendo materiale per scavare più a fondo; non male, come lettura, ma nulla di epico come forse voleva essere.


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