Magazine Cinema
Svezia, Danimarca, 2000
94 minuti
Non lo si può di certo definire un regista prolifico, Roy Andersson. Cinque lungometraggi e una manciata di corti in quarantasette anni di carriera, senza contare la distanza che separa il suo secondo film, Giliap (1975) da questo Songs from the Second Floor, premiato dalla giuria a Cannes. Dopo di allora, solamente altri due film a comporre quella che ad oggi possiamo definire come una "trilogia sull'esistenza": You the Living (2007) e l'ultimo, freschissimo vincitore della 71a Mostra del Cinema di Venezia, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, che da noi suona come "Un piccione seduto su un ramo riflette (appunto) sull’esistenza". Fin dall'insolito, ma memorabile esordio a questo trittico che sembra trasportare tutta la "pesantezza del vivere", lo svedese si presenta con uno stile riconoscibilissimo: priorità di piani sequenza a camera fissa (solamente qualche lentissimo carrello in avanti, o che indietreggia, come nella scena girata alla stazione dei treni); inquadrature costruite essenzialmente su un uso spinto della profondità di campo che qui, sfruttata al massimo delle sue potenzialità, sfida l'abissale (un vero allenamento per l'occhio); taglio minimalista, fotografia dal livore tipicamente scandinavo e privilegio per le architetture interne; pungente (a tratti feroce) satira di fondo, ancor più marcata nel film successivo (ma dagli esiti, personalmente, inferiori). Assieme all'austriaco Ulrich Seidl, Andersson si rivela abile perfezionista di simmetrie sceniche, disegnando la sua personale Apocalisse per metafore attraverso una sequenzialità di asfissianti cornici atte ad infiggere nel loro perimetro le (in)azioni di un'umanità emanciata, anemica, che incede a passo millimetrico caricandosi affannosamente di tutto il bagaglio della propria "improduttiva" esistenza (vedasi la sequenza-capolavoro al check-in dell'aereoporto). E' una lotta contro il tempo che scorre, ineluttabile, che contribuisce ad accrescere l'apprensione di non riuscire a giungere alle mete prefissate. Soccorso, in effetti, anche da quel periodo denso di timori "pandemici" (lo scoccare del nuovo millennio) durante il quale è stato realizzato, Songs from the Second Floor non fa altro che acutizzare quell'incertezza verso un futuro i cui orizzonti terreni appaiono quantomai più indistinti e sfuggenti; come indistinguibili dal resto della società, lo sono i fantasmi inquieti che s'infiltrano in questo grottesco corteo umano "flagellato" di paure e rimorsi, reclamando i loro diritti (il collega morto - il giovane impiccato in cerca della sorella). Perchè se la prospettiva dell'insieme ci restituisce una distanza focale inesplorabile, è altresì evidente che la stessa, si riduce drasticamente abbattendo la soglia tra l'universo terreno e quello dell'incorporeo; dimensione ottimale per accendere brillanti lampi surrealisti, per iconoclastia (l'esecuzione di una bambina coordinata da un gruppo di forze episcopali - la mercificazione dei simboli religiosi) non solo bunueliani, ma più facilmente riconducibili (almeno per il sottoscritto) a quella new-wave di matrice ceca (Chitylovà, Jires) che iniziava ad agitarsi durante la Primavera di Praga. In definitiva, tutto si risolve in una sarcastica e provocatoria rappresentazione di una società capitalistica cementata nel caotico ingorgo che egli stessa ha generato, svuotata del "senso della vita" (cit. Monty Python di Terry Gilliam, film per certi versi simile, in quanto intriso dello stesso disperato umorismo) in un mondo dove i valori più fondamentali vengono accatastati ai suoi più desolati confini e la cui umanità, incapace di riassestarsi dagli inevitabili colpi della vita, sembra oramai aver perduto definitivamente la propria direzione.
Senza dubbio, uno dei film più originali dello scorso decennio!
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