“Sono i cristiani che sorreggono il mondo”
Il cristiano nel mondo secondo John Henry Newman e la Lettera a Diogneto
Cos’ è un cristiano? Ti sei mai posto questa domanda? Oppure ti è mai capitato di confrontarti con qualcuno su questa domanda? Cos’è che distingue i cristiani dal resto dell’umanità? Si può individuare un cristiano in una folla? Cosa fa sì che un cristiano sia veramente un cristiano? Basta avere un certo credo? È forse una filosofia, un modo di vivere? Perché alcuni si sono convertiti alla fede attratti dall’esempio di cristiani, anche senza avere una propria consapevolezza? Edith Stein, per esempio, fu profondamente toccata dalla reazione della sua amica cristiana che accettò con fede e rassegnazione la perdita di suo marito, morto in guerra. Fu anche impressionata dalla vista delle signore che, ritornando dal mercato con le buste cariche di acquisti, si fermavano in Chiesa per una visita al Santissimo Sacramento. Chi sono questi cristiani?
Nel III secolo dopo Cristo, un certo Diogneto pose questa stessa domanda a un cristiano chiamato Mathete e ricevette una risposta. Pare che la medesima domanda abbia interessato anche un predicatore anglicano del XIX secolo. Egli parlava spesso dell’identità del cristiano nella Chiesa dell’Università di St. Mary’s a Oxford -e trovò una risposta.
Al di là del fatto di avere lo stesso nome, hanno qualcosa in comune i cristiani della Chiesa primitiva, quelli del XIX secolo e quelli della metà del secolo XX? Fu uguale il loro tenore di vita? Abbiamo noi qualcosa in comune con loro? La nostra vita appare come la loro? Possono essi dirci cosa significa essere un cristiano nel mondo -essi che hanno vissuto senza computer, DVD, aeroplani e senza ogni sorta di aggeggi elettronici e tecnologici?
La chiamata universale alla santità
Uno dei più significativi insegnamenti del Concilio Vaticano Secondo riguardala chiamata universale alla santità. Nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, troviamo un intero capitolo dedicato alla chiamata alla santità. Vi leggiamo: “Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla Gerarchia sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità” (LG 39), e ancora, “È chiaro a tutti, che ogni fedele di qualunque stato o grado è chiamato alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40).
Più oltre, “Tutti i fedeli sono dunque invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato” (LG 42).
Ciò non è un nuovo insegnamento, scoperto dai Padri del Concilio. Lo troviamo negli scritti e negli insegnamenti del santo raffigurato sull’altare, nella cappella privata del Cardinale Newman nell’Oratorio di Birmingham, San Francesco di Sales; lo troviamo negli scritti dei Padri della Chiesa; lo troviamo nelle parole dello stesso Gesù. Eppure, l’insegnamento del Concilio è notevole, ed è stato messo in evidenza spesso negli anni successivi, perché era - in qualche modo - dimenticato e, ahimè (come direbbe Newman) oggi sembra sia stato lasciato di nuovo ai margini della strada, come diluito dalle onde di un nuovo attivismo esteriore e superficiale.
Eppure è questa la chiamata che fornisce almeno la base per una risposta alla domanda che abbiamo formulata, cioè, è vero che tutti i cristiani di tutti i tempi hanno qualcosa in comune al di fuori del nome? Se, come insegna il Concilio Vaticano Secondo, tutti i cristiani sono chiamati alla santità, non potrebbe essere questo ciò che noi abbiamo in comune con i cristiani di tutti i secoli? Come si potrebbe definire questa santità?
Con in mente la chiamata universale alla santità, diamo uno sguardo più attento alla risposta che Diogneto ricevette alla domanda circa l’identità del cristiano, e alla predicazione di John Henry Newman nella Chiesa di St. Mary’sin risposta alla stessa domanda.
Il cristiano: nascosto nel mondo
Nella Lettera a Diogneto si legge che i cristiani “non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa” .
John Henry Newman - in un sermone dal titolo Cristo nascosto al mondo
- afferma che Cristo stesso potrebbe vivere vicino a noi, senza che noi lo sappiamo.
Egli, infatti, trascorse trent’anni in una vita nascosta, “senza fare nulla di grande, così, solo per
vivere. Non predicò, non chiamò discepoli, non promosse nulla in ordine alla missione per la quale era venuto nel mondo”. Di conseguenza, gli altri “lo hanno trattato come uno di loro”.
Simile è la sorte dei cristiani di oggi. Non appaiono diversi dagli altri uomini con cui essi lavorano e vivono. Ma, “pur simili a costoro esteriormente..., sono molto diversi nel loro intimo; non vogliono apparire agli occhi del mondo, si comportano con grande semplicità, con un’apparenza molto ordinaria, ma in realtà si impegnano seriamente per la propria santificazione. Fanno ogni sforzo per cambiare se stessi, diventare simili a Dio, imporsi una disciplina, rinunciare al mondo; ma lo fanno in segreto” (Gesù p. 206).
Newman sottolinea ancora che questi cristiani, alla vista dell’uomo comune, sono uguali a quelli che più o meno sono attaccati al mondo perché “la vera religiosità è una vita nascosta nel cuore; sebbene essa non possa esistere senza le azioni, queste sono per lo più azioni segrete: segrete opere di carità, segrete preghiere, segrete rinunce, segrete lotte, segrete vittorie” (Gesù , p. 206).
Il cristiano: straniero in terra straniera
Quando Diogneto lesse la lettera più oltre, gli fu detto che i cristiani “abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, sono superiori alle leggi”
(Liturgia, p. 757s.).
Nel sermone L’Apostolo, Newman considera il cristiano dell’età apostolica ed enumera tre caratteristiche dei primi cristiani. La prima, che ci interessa in primo luogo, “è di essere privo di legami e obbiettivi mondani, di vivere in questo mondo, ma non per questo mondo... Sappiamo cosa vuol dire essere cittadini di questo mondo: vuol dire avere interessi, diritti, privilegi, doveri, legami con persone in qualche città e stato particolari, dipendere da essi, essere obbligati a difenderli, esserne parte. Tutto questo il cristiano lo è relativamente al cielo. Il cielo è la sua città,non la terra. O, per lo meno, così era per quanto concerne i cristiani secondo la Scrittura”.
Siamo in qualche modo sorpresi nel vedere la somiglianza della descrizione nella Lettera a Diogneto con quella offerta da Newman secondo le Scritture. Questa particolare caratteristica del cristiano è tracciata diverse volte da Newman nei suoi sermoni. Non la vide come caratteristica propria solo dei primi cristiani, ma come caratteristica necessaria per i cristiani di tutti i tempi. Disse: “E’ compito specifico del cristiano opporsi al mondo” (Sermoni, p. 545).
Newman era convinto che i cristiani sono forestieri in questo mondo. “Sappiamo bene come ci colpiscono gli stranieri”, disse nel sermone Effetti morali della comunione con Dio, “spesso per la nostra mentalità, essi sono strani e poco gradevoli nel loro modo di fare. Perché accade questo? Esclusivamente perché vengono da un paese diverso dal nostro. Ogni paese ha i suoi propri modi di essere, - uno può non essere meglio dell’altro ma, per istinto naturale, noi abbiamo i nostri modi e non comprendiamo quelli degli altri... Alla stessa stregua, il mondo, in generale... non può neanche distinguere o capire il cristiano”.
Ma cosa significa questo nella vita quotidiana? In due sermoni profondamente illuminanti - uno intitolatoUna persona vigilante pronunciato da anglicano, l’altro intitolato Il cristiano: L’uomo che attende il Cristo essenzialmente lo stesso sermone riscritto e pronunciato da cattolico - Newman mostrò la ragione per cui i cristiani sono stranieri in una terra straniera. Essi devono vegliare per Cristo, per la sua venuta, cioè, “essere distaccati da ciò che è presente e vivere in quello che non è visibile; vivere nel pensiero di Cristo che è venuto una volta, e che verrà nuovamente; desiderando la sua seconda venuta per il ricordo affezionato e grato della sua incarnazione nel grembo di Maria”.
A questo punto qualcuno forse è tentato di obbiettare: ma noi viviamo nel mondo e non possiamo pretendere di farne a meno. Abbiamo la responsabilità della famiglia. Il denaro non si trova sugli alberi. È molto bello essere occupati nel vegliare per Cristo per un monaco o per una suora, ma noi dobbiamo vivere nel presente. Non si può pensare solo a ciò che non si vede.
Newman non fu ignaro di questa obiezione. Egli rispose spiegando che vegliare per Cristo significa essere vivi e zelanti nel cercarlo e onorarlo in tutte le situazioni e in tutto ciò che accade. La persona che abitualmente veglia per Cristo non sarà ansiosa di scoprire che Egli verrà presto. Vegliare con Cristo significa rinnovare la vita di Cristo nella nostra vita, comprese la sua passione e morte. “Chiunque vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,24). “I veri cristiani”, disse Newman, “sono vigilanti, e i cristiani incoerenti non lo sono” (Come guardare, p. 33).Lo spirito del mondo, avverte Newman, ha un grande influsso sull’anima. Questo spirito mondano è quello che “ama le mode, le onorificenze, i piaceri, le comodità di questa vita, - che ingenera soddisfazione nell’essere prospero nelle condizioni finanziarie, che ama lo sfarzo e le vanità, esigente nelle cose come il cibo, le vesti, la casa, l’arredamento e gli affari domestici, fa la corte a gente importante e aspira ad avere una posizione nella società”(PS [6], p. 101). Il linguaggio di Newman ci pare piuttosto forte, ma non possiamo fraintendere ciò a cui egli ci sprona: se siamo troppo preoccupati per il denaro, la bellezza, la moda, il cibo, i vestiti, ecc., abbiamo uno spirito mondano.
Gli stessi avvertimenti ci sono già stati dati da Cristo stesso nella parabola delle vergini stolte; nel racconto dell’uomo ricco che ebbe un raccolto abbondante e fece i piani per una vita di piaceri, a cui venne domandata l’anima quella stessa notte; nella parabola del seminatore in cui parte del seme fu soffocata dalle preoccupazioni di questo mondo; e nella parabola del servo che mangiò e bevve e maltrattò gli altri servi quando il padrone era assente.
In un altro sermone Newman fece ai fedeli alcune domande concrete per far capire bene la sua posizione: Siamo forse tentati di trascurare il servizio di Dio per qualche scopo temporale? Questo è del mondo, e da non accettare. Siamo messi in ridicolo perla nostra condotta oscienziosa? Ancora una volta questo è un giudizio del mondo, a cui bisogna resistere. Siamo tentati di dare troppo tempo ai nostri svaghi, di stare oziosi quando dovremmo lavorare; leggere o parlare quando dovremmo occuparci del nostro dovere temporale; sperare cose impossibili, sognare di essere in uno stato di vita diverso dal nostro; troppo ansiosi dell’opinione degli altri; attenti a ricevere credito per la propria laboriosità, onestà e prudenza? Tutte queste cose sono tentazioni del mondo. Siamo insoddisfatti della nostra sorte, oppure le siamo troppo legati, piagnucolosi e abbattuti quando Dio richiama il bene che ci ha dato? Questi uomini sono di mentalità mondana (PS VII, p. 39-40).
E altrove Newman ci avverte: “Nulla sembra corrompere talmente i nostri cuori e allontanarci da Dio, che quanto circondarci di comodità ...-siano esse cose animate o inanimate, che ci dominano... Quanti esempi ci sono nelle Scritture di uomini sciocchi e fastosi” (PS VII, p. 98). Basti pensare al ricco epulone che finì nei tormenti mentre Lazzaro giaceva nel seno di Abramo, a Demas che lasciò San Paolo perché amava questo mondo, e a Salomone, il re sapiente che nella vecchiaia amò molte donne straniere e adorò i loro dei. Non solo dobbiamo avere fede in Lui, ma dobbiamo servirlo; non solo dobbiamo sperare, ma dobbiamo attenderlo; non solo dobbiamo amarlo, ma desiderare la sua presenza; non dobbiamo solo obbedirgli, ma stare attenti; aspettare con zelo la nostra ricompensa, che è Gesù stesso. Non solo dobbiamo fare di Lui l’oggetto della nostra fede, della nostra speranza e del nostro amore, ma dobbiamo considerare nostro dovere non credere nel mondo, non sperare nel mondo, non amare il mondo. Dobbiamo decidere di non dipendere dalle opinioni del mondo. La nostra saggezza sta nell’essere distaccati da tutte le cose di quaggiù.
“In questo allora,” sostiene Newman in un altro sermone, “consiste il nostro totale dovere, primo nel contemplare Dio onnipotente, come in cielo così nei nostri cuori e nell’anima; poi, pur
contemplandolo, nel lavorare in Lui e per Lui, nelle opere di ogni giorno, nell’ammirare con fede la sua gloria con e senza di noi, e nel riconoscerlo con la nostra obbedienza” (PS III, p. 269).“Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25, 13).
“Sembra”, disse Newman, “che la volontà di Cristo sia che i suoi discepoli non debbano avere alcuna meta o fine, occupazione o affare che appartenga meramente a questo mondo” (PS II, p. 82). Newman non afferma che i discepoli del Signore non debbano avere occupazioni o affari, ma che questi non siano soltanto del mondo. Ma - noi obbiettiamo - comprare una macchina o lavorare in una ditta o pulire la casa o studiare per un diploma non sono forse affari solo di questo mondo?
Newman risponde di no, sottolineando che occorre compiere tutti i nostri doveri nell’obbedienza alla volontà e alla luce di Dio. Precisa: “Ogni atto di obbedienza è un avvicinarsi - un avvicinarsi a Lui che non è lontano, anche se lo sembra, ma molto vicino al visibile schermo delle cose che lo nascondono da noi.
Egli è dietro questa struttura; terra e cielo non sono che un velo frapposto tra Lui e noi; il giorno verrà quando Egli strapperà quel velo e si mostrerà a noi. E allora, secondo il modo con cui lo abbiamo aspettato, ci ricompenserà” (PS IV, p. 332).
Il distacco del cristiano dal mondo è la conseguenza diretta della sua conoscenza che Cristo verrà- alla sua morte o alla fine del tempo. L’idea di Newman è che questa conoscenza deve avere conseguenze pratiche, non per paura ma per amore. Nella Grammatica dell’assenso egli rileva che i primi cristiani erano ispirati non solo da una certa dottrina o da un ente pubblico, era soprattutto il ricordo di Cristo”che dava vita alla promessa di quell’eternità, che senza di Lui, in ogni anima, non sarebbe nulla più che un fardello”. (continua)