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Sono il numero quattro

Creato il 28 febbraio 2011 da Veripaccheri
Sono il numero quattro

La complicità tra cinema e televisione è la caratteristica più evidente dell'ultimo lavoro di DJ Caruso, regista approdato alla corte di gente del calibro di Steven Spielberg, Ivan Reitman ed ora anche di Michael Bay, quello di "Trasformers", qui nelle vesti di produttore per conto della Dreamworks. Padrini importanti per un film che rischiava di replicare stancamente le fatiche dei suoi mecenati e che invece pur non rinnovando il genere, perché "Sono il numero quattro" è il classico film di fantascienza in cui un manipolo di eroi tenta di salvare il mondo da una possibile invasione aliena, lo rinfresca utilizzando format che appartengono all'universo romantico sentimentale dei teenagers di mezzo mondo: stiamo parlando di serie televisive del tipo "The O.C", "Beverly Hills 90210" e via dicendo, che esplorando l'universo giovanile ne codificano tendenze ed i nuovi modelli comportamentali. Un mondo dicotomico in continua spola tra forme di aggregazioni istituzionalizzate come la famiglia, luogo della ragione e del buon senso, e la scuola, territorio di formazione dove si decidono le sorti della gioventù, verrebbe da dire dell'umanità intera se è vero che lo scontro finale tra buoni e cattivi avverrà nel campo da football del liceo, ed un senso di alienazione che in simili vicende sembra la chiave più efficace per esplorare i territori dell'amicizia e dell'amore.
Ed è proprio per questa spiccata propensione verso le vicende del cuore che il film, sulla scia di un prodotto come
"Twilight", capace di rileggere la saga dei vampiri con gli strumenti di un romanzo d'appendice, riesce a creare le condizioni per una partecipazione che non si ferma alla meraviglia ma arriva a coinvolgere la sfera emozionale.

Così dopo una scena d'apertura tanto crudele quanto spettacolare la sceneggiatura incomincia una sorta di lavoro ai fianchi dello spettatore, da un lato immergendolo nelle atmosfere ovattate e sognanti di una provincia americana immersa in una natura solare e vitale e le cui promesse di american dream sono evidenti nell'alchimia di due protagonisti destinati a reiterare un immaginario di prosperità familiare, dall'altra disseminando indizi ed atmosfere sul tipo de "il buio si avvicina", anche qui il contatto è frutto di un avvicinamento continuamente rimandato ma allo stesso tempo inesorabile, con improvvise sottrazione di colore a favorire un oscurità densa di presagi e restringimenti di campo che rendono il senso di una situazione senza via di scampo.
Da una parte il male con i suoi segni di morte, visi tatuati e pastrani neri, simili a quelli indossati dalle gerarchie naziste, dall'altra la faccia buona dell'America con le sue facce slavate e gli indumenti di un disimpegno calcolato sono gli altri segni di un manicheismo funzionale ad una storia che non ammette vie di mezzo.
Usando cromatismi artificiali utili ad enfatizzare gli aspetti fiabeschi di una vicenda che si mantiene lontana da qualsiasi forma di realismo e supportato da uno script perfettamente oliato (la sceneggiatura è degli stessi autori di Smalville) Caruso filma con disinvoltura, creando meccanismi di suspense ad orologeria in cui la continua sottrazione di certezze è riequilibrata dalla tipicità della situazioni. Forte di una modernità di tipo classico che privilegia una messa in scena di ampio respiro, con riprese più vicine allo stile "long take" che a quello frammentato, il regista si dimostra all'altezza di un film che non viene mai meno alle sue qualità di puro intrattenimento.

(pubblicata su ondacinema.it)


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