Nick Hornby, il celebre scrittore inglese, tiene una rubrica mensile di letteratura sulle pagine della rivista The Believer e gli articoli apparsi tra il maggio 2010 e il dicembre 2011 sono contenuti nel libro Sono tutte storie, edito da Guanda nel novembre 2012 (il titolo originale dell’opera è More Baths, Less Talking, la traduzione è di Silvia Piraccini). Potrebbe apparire opinabile l’idea dell’editore di pubblicare tutti gli interventi in un volume unico, visto che le recensioni risalgono a più di un anno fa e molti libri di cui si parla non sono stati tradotti – e forse non lo saranno mai – in italiano. Tuttavia, non credo che leggere Sono tutte storie sia uno spreco di tempo: ciò che colpisce, infatti, è il modo coinvolgente e informale con cui Hornby parla di libri e di letteratura in generale.
Il punta di vista è quello di un lettore forte che acquista e legge compulsivamente libri che trattano argomenti disparati: veri e propri tomi di cui pilucca alcuni brani, oppure volumi al di sotto delle duecento pagine. All’inizio di ogni intervento, Hornby annota nella colonna di sinistra i libri acquistati e nella colonna di destra i libri letti: i due elenchi non coincidono mai. Le sue letture procedono in maniera altalenante, assecondano l’umore, la poca disponibilità di tempo e anche la scarsa propensione per i classici, complice il pregiudizio che mille pagine equivalgano a noia sicura. I mondiali di calcio, poi, spengono del tutto la fame di letteratura. Ciononostante, «il tempo trascorso con un libro non è mai del tutto sprecato, nemmeno se l’esperienza non è stata felice: qualcosa da imparare c’è sempre». E ad insegnarci qualcosa è soprattutto la narrativa, nonostante Philip Roth abbia dichiarato recentemente ad un giornalista del Financial Times di non leggerla più.
Seguire il progetto inglese Mass Observation – un’inchiesta di storia sociale sull’Inghilterra del dopoguerra guidata da personaggi autorevoli, tra cui un antropologo, un poeta e un cineasta – può essere utile quanto leggere Dickens su un e-reader, oppure appassionarsi alla biografia di Montaigne. Hornby trascende i generi letterari e le considerazioni più propriamente stilistiche e accademiche; non è un critico di professione, bensì il lettore attento che divora o abbandona un libro e ci racconta cosa di quella lettura lo ha colpito. Nei suoi commenti, la lettura prevale sempre sulla scrittura. E ciò è tanto più rilevante, poiché a leggere è uno che di professione fa lo scrittore.
«Senza il servizio sanitario gratuito, non è che la gente morisse, ma la qualità della vita era straordinariamente e inutilmente bassa. Prima del servizio sanitario nazionale si brancolava mezzo ciechi, sdentati e infagottati in giganteschi pannoloni fatti in casa: possibile che nell’America del ventunesimo secolo ai poveri tocchi fare altrettanto? A proposito, era il Servizio Sanitario Nazionale a passare due degli articoli più caratteristici del look del rock. Gli occhiali preferiti di John Lennon erano i 422 Panto Round Oval, mentre Elvis Costello propendeva per i 524 Contour». È solo una delle tante annotazioni che Hornby fa e non è un caso che l’autore di Alta Fedeltà sia un lettore che usa la sua cultura musicale come ingrediente indispensabile per scrivere recensioni.
Questo libro non è un trattato di critica letteraria, né ha la pretesa di esserlo: è una dichiarazione di amore imperituro per la lettura, perché, è bene dirlo, «quello che mette la palla in rete, la persona che conta davvero, è il lettore. È lui a calciare, è lui a segnare».
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