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Soqquadri del pane vieto

Da Viadellebelledonne

 

Soqquadri del pane vieto

Soqquadri del pane vieto
2010
di Marina Pizzi

1.
è qui l’altrove del rantolo di fame
questo statuto che sa di Colosseo
verso i cani bastardi, randagi quanto
un dì del mese scorso. scorribanda
di eclissi starti accanto io che ti amo
oca di mamma guardarti nel passo.
dove ti ammacchi io so che mi ami
ugualmente lo stesso e senza ansia
bambina darsena col cerchio senza avaria di salto.
viadotto della cometa chiedere asilo
ai quartieri proletari dove i tarli ammucchiano
e le madonne scempiano. io spendo dio
per dirti del canile abbandonato al dolo.
i comatosi stanno zitti e i morenti urlano
come mio padre erto sulla fronte ubriache le guance
gli occhi spicchi di coltelli per la bramosia di pace
2.
adesso vorrei piangere un pochino
sulle assurdità che scrivo per liberare
la panchina che mi aspetta vecchia.
stralunare l’ulivo in una reggia
il cipresso in una lancia di voto
per raggiungere la gerarchia del cielo.
è invece limpido solo il sudario
per le strofe che piangono poema
dentro le giare dell’eclisse.
un dolore d’orgoglio m’infetta tutta
dalla mattina alla sera voglio il giglio
di poter volare. la cenerentola del bavero
è il mio ossigeno bacato dalla genia del no.
3.
tutti piangono da vicini di casa
con la canicola sul collo della colpa
per l’arrivo del gerarca ch sentenzia
gerundio a tutto campo per le pene.
in pace con lucertole già rincorse
si salvano i bambini puritani
innocenti senza rane nei barattoli.
qui il plurale delle nebbie sono anime
a capofitto linciate dagli stenti
per rendere cicalate le vendemmie.
tante le penne che non servono più a niente:
scrivo al computer con voracità d’impotenza
l’ebbrezza del servo che si senta libero
solo perché la faccenda è multipla.
4.
in posizione fetale questo rattristarsi
buio al fuoco della soluzione
altrettanto lutto della stanga
del passaggio a livello.
in mano a Cristo ho letto la valanga
della stazione ennesima risacca
rimango immune al basto dell’estate
calura tragica feto d’eclisse
dove si sparge l’odissea di dio
la cavezza rumina l’inferno.
di te Celeste ricordo le caviglie
la nullità furiosa dello zaino
quando si tratta di trattare amore.
paese triste il raggio della ronda
quando si tratta di raccattare il fango
la borraccia affoga nei buchi.
in America si saltano i fossi
per la bravura dell’atrio di casa.
non credo alle preghiere di chiodi
alle speranze che reggono le funi
dove è malato l’apice del tutto.
lungo la commedia del giorno mistico
inventi il sapore della madia d’Ercole
con le fandonie paniche del vero.
in corda a Cristo immagino vergogna
una ragione d’asma senza scrupoli
né ventre di promessa la vecchiaia.
5.
cuore di fuga raggio di malessere
questa bravata d’ansia che rincorre
le cicatrici ataviche del giusto.
in palio al gerundio di resistenza
sta la parata d’ascia che vuole uccidere
financo le gestanze del deserto.
attrice di vendetta la cometa
simula dio con la vestale accanto
così per murare l’ossatura
della finestra fiduciosa amante.
in rotta con le genie delle bellezze
si rompe il sangue che fraziona guerra
la zona sempre apolide del senso.
sì ho voglia di pulire il cielo
dalla vaghezza tragica del verbo
nella giunzione con l’altare fatuo.
6.
un giorno finisce il tragico s’inerpica
nella palude sciatta del mio corpo.
in realtà il tempo è un forsennato addio
una credenza con le formiche e le briciole
di quando c’era la spesa di una vita.
oggi mi appoggio all’eremo del buio
alla marina sirena delle regie del sale
perché la pendola è ferma da un mare d’anni
la noia piena di salute senza resistenze.
si stenta invece verso la fenice d’alba
questo abituro che assassina il futuro
dentro le scosse di singhiozzi e ceppi.
la terra è chiusa da sicari sicuri
nessuna pietà ospita la lena
di captare oasi la merenda infante.
così clemente è l’ora di guardarti
dentro la darsena della luna piena
alambicco di cristallo il tuo respiro.
piango assai quando qualunque impegno
mi precipita nel legno della cassa
appena morta forse. se ieri volli la regia del sasso
oggi il canestro è il desiderio più lungo.
7.
nessun domani ignori se stesso
è il passato il dubbio. la quarantena
vizza del rondinino storpio
dentro il nido piissimo delle cimase
chissà qualora uno stridio benefattore.
8.
non farò caso alla malia del timbro vuoto
la possibilità di essere chiunque
lo stallo di un ergastolo
la baraonda di un amante
oggi mi basta il fischio della fionda
la dura prova di chiudere a chiave
le inferriate delle lanterne vizze.
in coda all’alamaro della rotta
perdo la spugna per asciugare il sangue
acquisto le nomee di golfi senza attracco.
9.
la luna vuota sotto il sudario d’inganno
quasi a trasalire per una stoppia in cortile
dove si evince morte ben sicura
e tagli all’avaria del disamore.
questo si ritaglia dalla gaiezza del mare olimpico
quando si staglia la penombra della giovinezza
nell’equoreo barcone di guardarti
tenue balbettio del tic di non averti.
salutò la rima in riva al mare
senza amorazzi di lutto per sopravvivere
al cielo troppo alto da toccare.
in calamità di genesi e verdetto
offro la mira di guardare oltre
almeno oltre la feritoia della rondine.
appena assaggerò il sale ammesso
sarà fatale dimorare il cerchio
verso la falla della palla sgonfia.
il simbolo del cerchio è la bravura
della clausura libera la perfezione d’aria
nonostante il ritorno del medesimo.
alla marea di scarto voglio sottendere
genialità la nuca del bambino
che se ne va in apice di nido.
10.
ho visto un bell’albore quando da piccolo
s’insinuava l’arringa della vita
una vacanza con gli alamari aperti
verso la gioia la corsa anti muraglia.
in trono la lucertola immobile
verso lo scavo di trovar pepite
nel limitar di un’agenda vergine.
oggi nella ciotola che m’imbeve amore
racconto quale fu la mia mattanza
la polvere del rantolo e l’eclisse.
scampato sono stato un bambino d’epoca
con la ciotola del riso e la mitraglia
tra eremi di fanghi e ghiri di ricchi.
calamite di mosche soqquadrano il mio corpo
ora che avvengo da bambino offeso
dentro la darsena che mi soffre madre.
qui mi dannano una marea di lacrime
nel crimine del fasto in cima ad altri
continenti cattivi di ricchezza.
11.
il museo del giorno comune
quando dal fatuo del rimedio
si pinza la foto ad asciugare
a ricordo d’eccezione
svaghi mistici il sollecito dell’abaco.
12.
gli anni passano una radice nera
una miniera di aghi
una tempia suicida.
uno straccio di rondini si rannicchia
sotto cimasa in balìa del vento.
una crudele soglia intasca il cuore
nei valori del serpente che sibila
perpetue le sentenze dell’occaso.
13.
un eremo m’infesta la salute
mordo il crisantemo che mi sceglie
con scaglie ridanciane per uccidermi
contro la festa d’asilo di bambini
felici illetterati. con il filo spinato per bracciale
ingorgo la mia vita traumatica
mentore il sangue che non mi vuole bene.
tra treccine di braci vado a lungo
lungo il fiume per salvarmi l’anima
l’acqua migliore non saprà lavarmi
dai chiodi stonati delle labbra.
la lezione del vicolo se la ride
di me da sempre intenzionata al lutto
alla frode di strapparmi il cuore.
invece di coriandoli lamento
la lira che canzona la mia pace
sotto il circuito di lavarmi il viso
con il colera degli altri che sono tragici.
sbatte la persiana sulla collina fatua
vendetta che da anni si ripete
appena giungono le rondini di pace.
sono martirio e avanzo di me stessa
la resina del miele che non sa sedurmi
nel tramestio del mitico fantasma.
la rendita del fianco è stata arresa
dallo scontro illiberale della fune
dal cipresso che mi aspetta sempre.
14.
scottature di calce questa manfrina
che gioca con i verginei sassi
a ribassare il suolo per far giocare
i bambini. in bilico sul manuale d’ascia
so imparare a fendere il palazzo
sotto le membra che scaldano i papaveri
do diluire un pugno da una carezza.
la forza del messere signore assente
comunichi col brano della preghiera
dica se può magnificare la rendita
della fortuna. con poche eclissi ci
sarà riguardo verso lo scempio
di perdere il viso.
15.
da tempo sta morendo la mia diaspora
quel fannullone intrigo che mi perseguita
in guisa di nullaggine giornata
sotto il gingillo della luce pavida
per un vernacolo d’inedia in far di spada.
D’Annunzio rabbrividisce perché guerriero
Pascoli mi ama perché usignolo
Pasolini m’incoda nel dolore.
la fame è sedata sugli scalini del metrò
dove chi corre è un manipolo d’ascia
un polo di preda per chi è vile
e mozza la cometa della malinconia.
un sudario di madonne l’idroscalo
dove finì la madre Pasolini
e la vergogna è un inguine di tram.
l’ultima uccisa è una bambina bionda
cipresso di se stessa per la felicità
di nascere appresso ancora appresso
una venia per la forca di rinascere.
poi si vedrà chi ha cervello d’anima
per accovacciare i morti resi bambini
in un brevetto di chissà qual senso.
16.



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