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Sorellanza e scontro di civiltà

Da Femminileplurale

Sorellanza e scontro di civiltà

Il Time è settimanale il più venduto al mondo. Le sue copertine sono famosissime, una sorta di cristallizzazione dei tempi, oggetti di culto per i suoi 25 milioni di lettori. Per questo ciò che il Time sostiene, e come lo sostiene, è da valutare con attenzione.

A luglio, nel periodo in cui il movimento per Sakineh si stava allargando, il Time è uscito con una copertina inquietante. Titolava: “Cosa succede se lasciamo l’Afganistan“. Non era una domanda. La foto che accompagnava l’affermazione ritraeva Aisha, una adolescente afghana alla quale i fondamentalisti avevano mutilato naso e orecchie perché scappata dalla casa del marito. Prima di notare che la sciarpa colorata che le copre il capo scende su un corpo ancora adolescente, la vostra attenzione sarà catturata da ciò che nel suo viso sembra un fotomontaggio ma non lo è. Chiunque abbia a cuore i diritti umani, prima ancora di quelli delle donne, si sentirà in quanto essere umano chiamato in causa da una violenza tanto odiosa. ”Cosa succede se lasciamo l’Afganistan“. Una chiamata alle armi. E per una donna questa chiamata alle armi è, se possibile, ancora più forte. L’idea che gli uomini abbiano la volontà e la possibilità di esercitare su di noi un potere tanto assoluto da poterci punire, mutilare, sfigurare, lascia indignate e senza fiato. Arrabbiate e spaventate. “Cosa succede se lasciamo l’Afganistan“.

Ora, che il femminismo lotti contro la violenza sulle donne è noto. Per riferirsi al rapporto che lega ogni donna con ogni altra, nella tradizione femminista si usa una parola splendida: sorellanza. «C’è un rapporto di sorellanza tra due donne che non si sono mai conosciute», dice Giuseppina Conforti. La sorellanza è una questione sia emotiva che razionale. La mia condizione di donna è legata alla condizione di tutte le altre donne. So che non sarò mai davvero libera finché non saranno libere loro. Sento che la mia condizione è interconnessa alla loro. Perciò ben venga che la condizione di donne torturte e uccise venga portata all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Aisha come Sakineh. Le mutilazioni delle donne, le condanne a morte delle donne. Il potere che, contro la nostra volontà, uomini violenti esercitano sulle nostre scelte e sul nostro corpo.

• Ma proprio perché si ha a cuore la condizione delle donne, è pericoloso trasformarla in una ragione a supporto dell’attacco americano. Questa copertina non è a favore delle donne, ma a favore della guerra. Eccheggia, e non a caso, la retorica di Bush, che chiamò la guerra che dal 2001 ad oggi ha ucciso migliaia di civili (tra gli 11mila e i 14mila) “Operation Enduring Freedom”, Operazione libertà duratura. Tra questi morti civili, ovviamente, ci sono molte donne, molti bambini. ”Cosa succede se lasciamo l’Afganistan“. Retorica di guerra.

• Oltre al sospetto che le donne stiano prendendo il posto delle armi di distruzione di massa (e cioè quello di una scusa politica per giustificare la guerra), ho un altro sospetto. Che la condizione delle donne nell’Islam stia venendo strumentalizzata in una narcisistica retorica anti-Islam, a favore dell’Occidente. C’è da domandarsi perché. Perché l’attenzione dell’opinione pubblica viene direzionata verso la condizione delle donne in Paesi con una forte presenza fondamentalista islamica, mentre la condizione quotidiana che la nostra civiltà impone alle nostre donne viene considerata accettabile? Siamo certi di essere così bravi? Se nelle nostre città donne vengono uccise per un banale diverbio, e si applaude l’assassino. Se nella nostra tradizione donne vengono torturate, uccise e sciolte nell’acido per aver tradito l’omertà imposta da ex compagni. Se tra le mura di casa delle nostre famiglie adolescenti vengono strangolate e ne viene occultato il cadavere. Se nella nostra cultura donne vengono massacrate per strada perché ci sono uomini che si devono sfogare.

Dato tutto questo, siamo certi che la nostra cultura debba essere l’esempio? C’è davvero una modica quantità di violenza contro le donne che consideriamo culturalmente accettabile? E che magari stiamo già chiamando civiltà? La nostra?


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