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“Sorelle Mai” di Marco Bellocchio: il declino della borghesia

Creato il 13 luglio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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Quest’anno è passato sugli schermi un piccolo film di Marco Bellocchio che offre interessanti spunti di riflessioni: si tratta di Sorelle Mai (2011), uscito in sole 40 copie. Il film si compone di sei storie, tra loro correlate, che sono il frutto dei corsi di cinema che il regista tiene nella sua città natale, Bobbio, in Val Trebbia. La struttura produttiva, decisamente povera (appare girato in digitale e successivamente riversato in pellicola), unitamente alla genesi costruttiva potrebbero indurre  a guardare con sufficienza al film che, invece, riesce a sfruttare il percorso narrativo per offrire una riflessione distesa sul nostro tempo e i rapporti generazionali interni alla borghesia, intendendosi qui per borghesia il ceto medio produttivo avanzato.

Tra gli attori sono presenti diversi parenti del regista (i figli, il fratello e le zie), attori professionisti e non. Le riprese si estendono per nove anni e permettono di seguire la crescita reale della figlia del regista, con un impressionante effetto di realismo narrativo. A fare da sfondo alla narrazione “le sorelle Mai” che presidiano la vecchia casa di origine, collocata nelle campagne piacentine. Ad amministrare le sorti di questa casa un amico che sovrintende alla concretezza della vita reale che difetta ai discendenti di questa famiglia: Sara e Giorgio, due adulti-ragazzi che non sono ancora diventati maturi e non sono già più dei giovani. Il senso di sospensione tra il non ancora e il già non più è rappresentativo di gran parte della generazione di mezzo attuale che ha dovuto abbandonare l’età della gioventù per raggiunti limiti biologici ma non ha trovato ad attenderla una collocazione sociale in cui inserirsi. Eppure i due giovani in questione appartengono ad una speciale classe, sono i figli della media borghesia che, dopo alcune generazioni di scalata sociale, ha costruito i mezzi per l’agiatezza dei propri figli. Arrivati al culmine di questo percorso di crescita economica e sociale, la generazione attuale rivolge le proprie attenzioni verso le velleità artistiche (Sara è un’aspirante attrice) o verso le facili speculazioni economiche ma, in entrambi i casi, fallisce in quanto priva della necessaria struttura.

Di particolare interesse appare l’ambizione artistica in quanto è indice della fine del percorso produttivo della classe di appartenenza. La (falsa) convinzione di poter produrre artisticamente è il chiaro sintomo dell’incapacità di poter produrre alcunché. Una simile riflessione non appare del tutto avulsa dalla volontà del regista anche alla luce di alcuni segnali disseminati lungo la pellicola, tra cui l’incipit che vede Giorgio intento alla lettura di Cechov, l’autore de Il gabbiano (1895), opera teatrale simbolo della frustrazione artistica della borghesia, cui Bellocchio ha dedicato un adattamento cinematografico: Il gabbiano (1977); l’attenzione del regista per Cechov è testimoniata anche dal suo Appunti per un film su zio Vanja (2002). In tale funzione simbolica ritroviamo l’opera checoviana anche in Habebus Papam (2011) di Moretti. Una lettura politica del film è suffragata anche dalla presenza in forma di inserti off-diegetici di frammenti di I pugni in tasca (1965) dello stesso regista,  film manifesto sul disagio di quella generazione di rottura che diede vita al ’68, rispetto al quale si gioca di sponda nella creazione di un parallelismo generazionale.  Le vicende dei due adulti irrisolti si dipanano tra insuccessi, illusioni e false speranze che hanno il solo scopo di spostare in avanti obiettivi sempre più irraggiungibili e inducendoli a passi falsi e manchevolezze verso le persone che costituiscono il loro ambito affettivo ma a cui fanno riferimento per ogni forma di sostegno.

Il finale del film vede scomparire nelle acque il simbolo della costruttività e del pragmatismo, l’amministratore della casa di famiglia. Una scomparsa che sembra volersi proporre come sacrificio, come un’offerta di una possibilità, un ultimo gesto di generosità, forse per rispondere al proprio senso di colpa verso una generazione nata morta, uccisa dalla miopia dei propri genitori (non a caso assenti nel film) che per loro non ha riservato un ruolo. Un esempio di cannibalismo di classe.

 

Pasquale D’Aiello

 

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