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Sorrentino e la rappresentazione dell’Olocausto

Creato il 16 novembre 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Sorrentino e la rappresentazione dell’Olocausto

 

Nell’ultimo film di Paolo Sorrentino, This must be the place (2011), una ex rockstar si mette sulle tracce di una guardia del campo di concentramento di Auschwitz, dove era stato rinchiuso suo padre, per vendicare un’umiliazione che aveva subito ad opera del soldato nazista. Scovato l’ormai anziano aguzzino, gli infligge un’umiliazione paragonabile a quella sofferta dal padre. E se il padre aveva urinato nei pantaloni, questi è costretto a denudarsi e a camminare nella neve.

La questione che si vuole qui affrontare è la modalità con cui Sorrentino si è approcciato al tema dell’Olocausto.

 

Sorrentino e la rappresentazione dell’Olocausto
Senza voler misconoscere l’uso abnorme e strumentale che dello sterminio ebraico fanno gli israeliani e i sionisti in generale che lo utilizzano, unitamente alla Bibbia, come fonte del loro diritto ad opprimere i palestinesi, resta assolutamente attuale e necessario riconoscere a quell’evento storico lo statuto di annullamento etico che segna una condizione di eccezione nelle prassi politiche moderne. Non è l’unico evento storico che impone una specificità nella trattazione. Per noi occidentali è dotato di un simile rilievo di eccezione, ad esempio, anche l’iconografia cristologica che, a prescindere dalle convinzioni religiose, è divenuta nei millenni una narrazione della nostra civiltà. In altri termini, voglio affermare che un popolo, una civiltà si percepisce e si definisce anche attraverso storie, simboli ed eventi storici. Il rispetto non strumentale di queste narrazioni dimostra la consapevolezza del proprio essere uomini nella storia e con una storia. A prescindere dalla consapevolezza di Sorrentino, non si può non rilevare quanto il suo film sia totalmente privo della strutturazione narrativa che il tema trattato imponeva.

 

Sorrentino e la rappresentazione dell’Olocausto
Faccio una considerazione preliminare: un tema come l’Olocausto, per la sua stessa natura, non può essere trattato marginalmente anche nel caso in cui, come nel film di Sorrentino, non sia il tema principale. E, invece, nel bilanciamento delle forze in gioco appare chiaro quanto nella mente del regista questo tema avesse esclusivamente un ruolo funzionale allo sviluppo dei personaggi e della trama. Il tono della recitazione e il registro complessivo della parte del film dedicata alla ricerca dell’ex nazista è incomprensibilmente punteggiata da elementi brillanti: ad esempio il cacciatore di nazisti è un personaggio inspiegabilmente ironico anche se nessun elemento della sua vita giustificherebbe il suo umore leggero. Veniamo al punto che mi sembra centrale: in una tragedia che ha fatto sei milioni di morti e ha visto innumerevoli uomini torturati, mutilati, privati della loro libertà, oltre ad aver  inflitto atroci sofferenze alle persone che avevano più care, Sorrentino non sceglie uno di questi episodi da vendicare ma una semplice, per quanto profonda, umiliazione. Le profonde umiliazione avvengono tutti giorni nei luoghi di lavoro, nelle carceri, nella società e non c’era certo bisogno di ricorrere all’Olocausto per trovarne una. Scegliere un tale episodio minore appare di per sé una riduzione della portata di quella tragedia storica. Perché il regista e sceneggiatore sceglie un episodio tanto blando? La risposta sembra abbastanza semplice: se la ex rockstar (interpretata da Sean Penn) avesse dovuto vendicare un’uccisione o una tortura avrebbe dovuto ripagare il carnefice con la stessa violenza, ma ciò non era in linea con le tinte positive e leggere del suo personaggio.

A causa di tutte queste malaccortezze e di altre di diverso genere, quando nel finale del film si vede l’ex nazista quasi centenario camminare nudo nella neve e coprirsi per pudore, non si prova alcun sentimento: non c’è odio per il carnefice, non c’è empatia per la vittima, non c’è condivisione con chi ha cercato di far giustizia, nulla di nulla. Si percepisce solo un’estetizzante composizione scenica che, non sorretta da una storia condivisibile, resta un gesto vacuo e quasi irritante.

 

Sorrentino e la rappresentazione dell’Olocausto
Appaiono a distanze siderali i tempi in cui Jacques Rivette polemizzava atrocemente contro Gillo Pontecorvo, che aveva “osato” rappresentare in Kapò (1959) in modo estetizzante la morte in un campo di concentramento, e Alain Resnais rifletteva sull’inopportunità di tagliare i piani sequenza dei materiali da lui girati che documentavano i campi di concentramento in Notte e nebbia (1955) o, ancora, le riflessioni di Jean-Luc Godard nella sua Histoire(s) du cinema (1998) circa la pervasività che l’Olocausto ha rispetto a tutte le immagini che l’uomo possa produrre e la sua contrapposizione rispetto alle tesi del regista di Shoah (1985), Claude Lanzmann, che sosteneva l’impossibilità della ricostruzione filmica di farsi carico della rappresentazione della Shoah.

A giudicare dai successi del botteghino si potrebbe essere indotti a pensare che forse il ragionamento qui svolto sia solo una residuale astrazione intellettualistica sconnessa dalla reale emozione filmica. Ma il film è brutto (non solo per quanto qui detto) e non emoziona e, dunque, il rischio che queste riflessioni abbiano un senso reale ed attuale è seriamente fondato.

 Pasquale D’Aiello

 

Sorrentino e la rappresentazione dell’Olocausto
Scritto da il nov 16 2011. Registrato sotto CONTRASTO, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione


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