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Sorvegliare e punire (il popolo del web)

Creato il 07 maggio 2013 da Martatraverso
Sorvegliare e punire (il popolo del web) Si è dibattuto molto, negli ultimi giorni, nell'interpretare alcune dichiarazioni dell'attuale Presidente (o Presidenta? o Presidentessa?) della Camera - per chi non sa quanto avvenuto, citofonare Zambardino - ma questo post non intende entrare nel merito della polemica. Mi limito a una considerazione personale: per essere ottimi politici bisogna avere, tra le varie doti, anche quella di essere ottimi comunicatori. Tuttavia, deve ancora passare il messaggio che per essere ottimi comunicatori bisogna anche (e soprattutto?) essere ottimi comunicatori 2.0.
Non perché - come spesso si ritiene - entrare a tuffo carpiato nella rivoluzione digitale in corso eviterà a molti di trovarsi in un Mormonismo culturale da cui è difficile uscire. Non credo né nella rivoluzione né nel Mormonismo. Ritengo tuttavia che chiunque svolga una professione che implica il contatto con il prossimo debba frequentare tutte le piazze in cui questo "prossimo" si riunisce. Incluse le piazze dei blog, dei social network, dei mondi virtuali e delle realtà aumentate.
Nel leggere vari commenti sulla cronaca recente di cui sopra, mi è caduto l'occhio su un interessante articolo di Bruno Saetta su Valigia blu, intitolato TwitterJokeTrial, il dissenso sociale e le leggi speciali per regolamentare la Rete.
Si parla di un processo avvenuto nel Regno Unito, nei confronti di un ragazzo (poi assolto) "colpevole" di aver scritto questo tweet in lamentela alla chiusura di un aeroporto: "Crap! Robin Hood airport is closed. You’ve got a week and a bit to get your shit together otherwise I’m blowing the airport sky high!!".
Qual è il reato? Terrorismo, procurato allarme? A mio parere sono stati creati molti più danni morali ai tempi del non-terremoto in Garfagnana. L'articolo di Saetta pone tuttavia un punto fondamentale sulla questione, che mi permetto di citare testualmente: «Il problema delle leggi speciali per Internet sta tutto qui (...) La verità è che le leggi per Internet ci sono già, perché non esiste una norma per la diffamazione al telefono piuttosto che in una pubblica piazza, come non avrebbe senso distinguere tra stupro in macchina o per strada, esiste “la diffamazione” e “lo stupro”, e generalmente un reato commesso tramite internet (per i giuristi “mezzo di pubblicità” ai sensi dell’art. 595 c.p.) è addirittura punito con una pena maggiore».
La mia formazione da comunicatrice è stata densa (molto densa) di sociologia e assai poco densa di web, complice del fatto che per i miei docenti il massimo dell'innovazione a quei tempi - laurea il 28 marzo 2008, fate due calcoli - era Wikipedia. Restando in tema di sociologia, questo articolo mi ha fatto tornare alla mente Michel Foucault e il suo Sorvegliare e punire. Di cosa parla, in sintesi? Una riflessione pubblicata nel 1975 su come il sistema carcerario sia diventato base della società moderna. Un sistema che attraverso l'esercizio del potere assoggetta, imprigiona, isola, che per mezzo della reclusione annichila il "soggetto deviante" impedendogli non solo di compiere ancora il suo crimine, ma anche qualunque forma di rieducazione, di ritorno alla società.
In misura minore, la logica di Sorvegliare e punire viene applicata quotidianamente dai molti che credono che esista un popolo del web (gli stessi, probabile, che da bambini alzavano la testa quando gli veniva detto "Guarda, c'è un asino che vola"). Tema dominante del dibattito di turno è l'ormai famigerato bavaglio, cui le voci a favore e contro si levano alte senza troppo argomentare. Chi sostiene la libertà della varia umanità che utilizza il web - leggi: articolo 21 della Costituzione - chi pensa che Il Web (con articolo determinativo maiuscolo, come fosse essere senziente) andrebbe chiuso, oppure regolamentato, oppure maggiormente sorvegliato. Mai che si discuta sulla sociologia del web, sul perché questi socialcosi hanno successo e sul come utilizzarli in maniera virtuosa. Citando nuovamente Saetta, «Non è con la sanzione criminale che si ‘educano’ i cittadini, ma casomai con una scuola efficiente».
Perché nelle scuole - e qui mi riferisco soprattutto alle scuole di giornalismo e comunicazione - non si insegna che blog e social network possono essere ben altro che un divertissement?
Perché non si spiega ai giornalisti che i social network non sono (1) un'inevitabile perdita di tempo, o ancora peggio (2) una paccottiglia di "dilettanti allo sbaraglio" che vogliono rubar loro il lavoro, per non parlare dell'essere (3) multinazionali concorrenti che incassano inserzioni pubblicitarie al posto loro, ma una via di contatto diretto con lettori e stakeholder (termine amato assai dai comunicatori), peraltro entrambi potenziali inserzionisti?
Perché non si spiega ai politici che se aprono gli account social per parlare con la gente, poi con la gente ci devono parlare, ossia rispettare la regola numero uno della linguistica secondo cui "il processo comunicativo tra emittente e ricevente è per sua natura intrinseca bidirezionale"? Ossia, per dirla in parole semplici: lo stagista del leader/segretario/ministro di turno non può rispondere a tutte le mention su Twitter e a tutti i commenti su Facebook per ovvie ragioni pratiche (ovvero: sono troppi e spesso a sproposito), ma non tenerne conto equivale a organizzare un comizio in una piazza vuota, mentre il pubblico dibatte in quella accanto.
Chi pensa che i social siano un inspiegabilmente doveroso spreco di tempo, farebbe prima a non usarli. Ci sono talmente tante attività interessanti da compiere nella vita, tante modalità differenti di creare fatturato, tanti canali attraverso cui intercettare il proprio elettorato. Se stare sul web non vi piace, o ci capite poco, ve ne prego, uscitene. Se invece scegliete di restare, abbiate l'umiltà di rallentare e capirne a fondo le regole, prima di ripristinare i metodi di cura punitiva del mezzo (in apparenza) deviante.
[l'immagine viene da qui]

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