La celebrità esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice e non la sobria rinomanza degli statisti sul viale del tramonto o dei sovrani dal mento sfuggente. E magari avessi scritto anche io, come DeLillo, una storia che comincia così, d’altronde non sono mai stato un eroe del rock and roll – al massimo del post punk e in un’area estremamente circoscritta – tanto meno un autore. Di certo sono una brutta persona perché non mi sono sottratto dallo spiare mia figlia mentre giocava a fare la star del pop, mimando di percuotere immaginari strumenti musicali a corde al ritmo di chi non ve lo dico, dal momento che un po’ mi imbarazza. Da questo tempio del gusto raffinato e di nicchia da cui sto componendo queste righe a volte si percepiscono, anche per mia volontà, ascolti piuttosto ordinari e commerciali. La cosa mi ha fatto riflettere per due motivi.
La ragazza malgrado le insistenze di genitori affetti da una passione smisurata – il padre, poi, non ne parliamo – non ha mai gettato la spugna sulla propria volontà di lasciarsi trascinare nello studio di un qualsiasi strumento malgrado il suo senso del ritmo e il fatto che abbia già una nutrita raccolta sua di brani di riferimento. A me per esempio piacerebbe introdurla alla batteria, oppure uno strumento monofonico a fiato. Di certo eviterei il piano perché comporta stress a cui non voglio sottoporla a partire dalla sua intrasportabilità, nel caso di scampagnate con gli amici, e dall’equivoco di fondo alla base dello studio stesso. Se fai musica classica diventi spartito-dipendente, il jazz è altrettanto lingua morta o in auge presso comunità chiuse del latino, tutto il resto non rende con gli accompagnamenti con la mano sinistra che comunque fanno sempre l’effetto canzone di Baglioni. Anche se vuoi far ascoltare una rivisitazione dei brani dei Cure. Non nego però di essere sollevato dal considerare quella musicale un’indole tenuta in stand-by e da lasciare latente, ho i miei buoni motivi e li ho già elencati qui se non ricordo male. Il secondo aspetto riguarda invece il fatto che quello stesso gioco, mimare le star del rock, lo facevo anche io, tale e quale e più o meno alla sua età. La racchetta da volano come chitarra, un fazzoletto legato in fronte, uno specchio o il vetro della finestra come pubblico. E non so, probabilmente anche i miei genitori mi hanno spiato e si sono chiesti perché non giocassi con i soldatini Atlantic, cosa che comunque facevo.
Oggi quella fluorescenza divoratrice, quella di Bucky Wunderlick per intenderci, è molto meno luminescente di allora perché basta guardarsi intorno che è tutto sempre acceso. I banner su Internet, le foto dei socialcosi, i display nelle stazioni, i passatempi digitali portatili. Tutti hanno successo. E negli interstizi di questo inquinamento luminoso universale – in senso proprio, lato e traslato – tutto è glitterato apposta per non lasciare in ombra chi è costretto a riflettere perché privo di luce propria. Così diamo l’impressione – ma a chi poi, che ormai non c’è più pubblico e mercato nemmeno al sud del mondo? Agli alieni? – che a qualunque ora svegliarsi dopo un incubo chiunque può ritrovare i propri punti di riferimento. Non so voi, ma io al massimo, di notte, tengo una striscia di tapparella aperta. Di più poi non riesco ad addormentarmi.