SOURCE CODE (Usa/Francia 2011)
Avevamo lasciato Duncan Jones alle prese con qualche problemino nello spazio e su quel piccolo satellite che tanto sa ispirare le menti di poeti e cineasti: mondi e circostanze che, alla maniera di Borges, si ripiegano su se stessi infinite volte; luoghi angusti e senza vie d’uscita; una scienza impossibile che, incapace di fermarsi di fronte alle leggi fisiche del nostro mondo, sa chinarsi soltanto al cospetto delle esigenze (e paure, e speranze, e aspirazioni) dell’uomo… Elementi, questi, che tornano in maniera diversa ma altrettanto efficace in Source code, fanta-action movie costruito alla perfezione che è anche, e forse soprattutto, una toccante e inedita storia d’amore.
Il pretesto è tanto semplice quanto improbabile: come potrebbe essere utilizzata la facoltà del cervello umano di rimanere attivo per altri otto minuti dopo il momento della morte? E se si potesse collegare un cervello, infinite volte, agli ultimi otto minuti di una persona deceduta, in modo da poter rivivere un determinato lasso di tempo tutte le volte che lo si desidera? Quali conseguenze potrebbe avere quell’universo interiore sul mondo reale? Domande che si pone il dottor Rutledge dell’esercito americano nella speranza di poter evitare un attentato terroristico nucleare nel cuore di Chicago. Il cervello in prestito è quello del giovane militare Colter Stevens – in fin di vita dopo un’azione militare in Afghanistan – spedito nella mente di un insegnante morto per una bomba esplosa su un treno.
Detto con simili parole potrebbe sembrare tutto molto stupido e complicato, ma – credetemi – si tratta di un film costruito talmente bene, così avvincente e coinvolgente che anche la più improbabile delle svolte narrative ne esce fuori con una naturalezza senza paragoni. A metà strada tra La jetée/L’esercito delle 12 scimmie e The jacket (ma anche i film sulle macchine del tempo sembrano aver fornito più di uno spunto, concettualmente parlando), Source code gioca con il destino, con la morte e con il tempo in modo profondo e originale, chiedendo allo spettatore di sospendere la sua incredulità e regalandogli in cambio una favola (iper)moderna dal finale spiazzante e dolceamaro. Azzeccato il quartetto di protagonisti (Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan, Vera Farmiga e Jeffrey Wright) per un’opera seconda che, pur abbandonando la sperimentale autorialità di Moon a favore di un approccio più consueto e hollywoodiano, intrattiene ed emoziona con gusto e ritmo incalzante.
Alberto Gallo