Nonostante una settima stagione fallimentare, spenta e spesso noiosa, rimane abbastanza indiscutibile l’enormità e la complessità del progetto che Steven Moffat sta creando da quando è diventato showrunner di Doctor Who: un universo vasto, dettagliato, bizzarro e, a quanto sembra, estremamente ben organizzato, perché, sebbene permanga una sorta di comprensibile gommosità nel voler mettere insieme ogni maledettissima cosa di cinquant’anni di vita, è difficile non rimanere piacevolmente stupiti di fronte al disegno a mosaico che non solo compone The Day of the Doctor, ma che diventa a sua volta tassello strambo, densissimo e ammirevole di una continuity impossibile e sinceramente incredibile.
Conosco poco o nulla della vita del Dottore pre-2005, ma ciò non intacca la comprensibilità e una certa commozione che Moffat ha saputo scrivere strizzando l’occhio a fan vecchi e nuovi: lo specialone per il cinquantennale (ben 75 minuti di durata) non è di certo quella puntata epocale che ci si poteva aspettare, ma a fronte di una stagione davvero brutta e scolorita è comunque storia intricata e piena di pathos, sostanzialmente scritta in maniera magistrale ma priva di una certa epicità che, al di là della ricorrenza storica, manca ormai da tantino. Certo, ormai siamo distanti dalle atmosfere drammatiche di Davies, e penso sarebbe inutile continuare a rievocarle nostalgicamente se solo fosse rimasta inalterata la qualità generale della serie: il Dottore secondo Moffat è matto, illogico e protagonista di storie divertenti e per certi versi leggere, molto complesse da un punto di vista strutturale ma più deboli da uno invece più emozionale, chiaro quindi che The Day of the Doctor segue questa strada, aprendosi a una trama molto spassosa e parecchio articolata nei suoi salti mortali narrativi, ma che pecca laddove diventava necessario premere un po’ più sul dramma e sulla raffigurazione dei nemici. D’altro canto, pensando a quello che scriveva Moffat una volta (EMPTY CHILD! SILENCE IN THE LIBRARY! BLINK! LET’S KILL HITLER!) e quello che invece scrive adesso, si nota una differenza di sostanza non indifferente, ed è comprensibile una certa amarezza, ma considerando per un attimo la trama orizzontale che ha messo in piedi c’è comunque da rimanere ampiamente soddisfatti. Diamo la colpa di un amaro disequilibrio magari anche alla presenza di DAVID TENNANT, che viene ottimizzato magistralmente nel confronto con Matt Smith e con i dottori passati, tutti simbolicamente incarnati da un bravo John Hurt, ma che pur innescando lacrimoni enormi con certa gestualità e leggendaria parlata, porta inevitabilmente a fare confronti con il passato che oggigiorno sono qualitativamente impossibili. The Day of the Doctor è infatti un perfetto esempio di quello che è Doctor Who adesso, qualcosa quindi di molto particolare da un punto di vista narrativo, ricco di umorismo strampalato e mitragliato e invenzioni con incastri micidiali (qui, per esempio, il fez che travalica spazio e tempo, o il piano per distruggere l’invasione Dalek, e naturalmente la scoperta di come ogni singola cosa creata a partire dalla stagione cinque venga messa in continuity), ma che forse non riuscirà mai più a rievocare certe atmosfere con lo stesso lirismo drammatico e quella commovente epicità che solo Tennant e Davies avevano dato a Doctor Who. Se solo Moffat riuscisse a mantenere un controllo narrativo anche laddove non c’è la sua mano a curare le sceneggiature, la serie potrebbe tornare ai suoi massimi splendori, ma finché sarà sempre e solo lui a sfoderare le cosiddette puntate belle, diventa necessario sperare in un cambio davvero, davvero radicale quando Peter Capaldi sostituirà (lacrimuccia) Matt Smith.
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