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Giorgio Vasta e il suo nuovo libro Spaesamento
La seconda fatica di Giorgio Vasta, Spaesamento, edito da Laterza nella collana Contromano, è, come lo era stato Il tempo materiale, suo esordio letterario, un testo anomalo. Se nel primo libro la voce narrante era quella di Nimbo, ragazzino dall’eloquio forbito, ipotattico, “qualcosa” di simile a un nastro di Möbius, un dentro-fuori che introietta linguaggio per ri-configurarlo e rimetterlo in circolo, adesso è l’autore stesso, Vasta, col suo “portato” d’uomo, a farsi narratore e voce. Ed a farlo attraverso una missione da svolgere: un carotaggio. Vale a dire, prelevare un campione d’Italia, un campione di umanità, di esistenza, trascorrendo tre giorni a Palermo. Il capoluogo siciliano, città d’origine di Vasta, come sede dell’esperimento.
In tempi di narrazioni forzatamente “impegnate” e personaggi a tutti i costi indimenticabili (quanti strilli usano questi termini?), Giorgio Vasta fa del suo carotaggio, e quindi del romanzo, un attore; la narrazione si fa essa stessa personaggio. In questo contesto, il narratore-scienziato deve provare a non fare nulla, a lasciare che il mondo gli accada intorno. Solo in questo modo, forse, il campione potrà essere utile allo scopo.
È così che sulla scena di Spaesamento, una Palermo, calda e sorniona, ma quasi un enorme palcoscenico-Italia in perenne tempesta neurovegetativa, si accalcano vari esponenti di un’umanità che ha eletto l’immagine a sua divinità e forza. Come la “donna cosmetica”, abbronzata, ancora tonica ma già indice vivente del naturale decadimento del corpo, riferimento esperienziale del primo giorno che, nell’antro dei sogni, per il protagonista si trasforma in una iper-reale emulazione di Edwige Fenech, regina indiscussa e incontrastata della commedia pruriginosa all’italiana, interminabile galleria sessuale, fonte munifica di abiezione. O come gli emo, con cui il narratore entra fugacemente in contatto, o gli avventori dei bar, fossilizzati in ruoli che non sanno di avere.
È per questa via che si giunge al cuore della narrazione, al supremo spavento provato di fronte alla scritta BERLUSCONI, costruita con la sabbia, in spiaggia. E da quella scritta esplode la riflessione sulla malattia del Paese, sull’agente rivelatore Silvio Berlusconi, il quale si limiterebbe a rimandare agli italiani, alle masse, quel bisogno di torpore, di sicurezza, di struttura. Berlusconi è il grembo materno-catodico in cui si è sostanziata e continua a concretizzarsi la nostra sindrome, il nostro complesso. Riportando testualmente da una delle ultime pagine: «Gli italiani […] vivono immersi nell’incarnazione della loro storia. Vivono nel caos del ventre dove la morte scompare, nei genitali che non generano. Berlusconi serve a questo: a giocare all’idolatria blasfema, o a giocare al nemico. Berlusconi è la sintesi di questo tempo che non trascorre.» Palermo così diventa l’Italia intera, diviene la sede di uno dei tanti spaesamenti sparsi per lo stivale.
Giorgio Vasta può facilmente non piacere: è lo scrittore dell’aggettivazione al potere, del periodo lungo e intricato, del ventaglio lessicale amplissimo. La sua scrittura è d’azione e di parola allo stesso tempo, o magari di azione attraverso la parola, e di parola o “linguaggio”, con questo termine più genericamente intendendo non solo gruppi di fonemi, che ripercorre l’azione, dicendola, e la fa vivere, la rende codificabile e decodificabile.
Rimane solamente da chiedersi, e sembra quasi un interrogativo avanzabile in una riflessione come quella di Spaesamento, se nel nostro Paese siamo pronti a uno scrittore del genere.
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