In un colloquio investigativo nel 1997con il procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, Gaspare Spatuzza, allora lontano da qualunque impulso a collaborare con la giustizia, avvertì gli investigatori che sulla strage di via D'Amelio stavano clamorosamente sbagliando.
«Ma da loro - spiega il pentito alludendo agli inquirenti - non seppi nulla».
La rivelazione arriva al processo per l'eccidio costato la vita al giudice Paolo Borsellino: Spatuzza è sul banco dei testi per raccontare la sua verità sulla strage. Una verità molto lontana da quella che ha portato alla condanna all'ergastolo per l'attentato di sette innocenti.
Sulle fasi preparatorie della strage Spatuzza ricorda tutto in dettaglio: dal furto della 126 usata come autobomba, al trasferimento della macchina in diversi magazzini che la cosca di Brancaccio aveva a disposizione. A sovrintendere a tutte le operazioni, compresa la messa a punto dell'auto che doveva essere efficiente, il boss Giuseppe Graviano, capomafia a cui Spatuzza era ed è - ci tiene a precisarlo - legato da «grandissima amicizia». Il pentito è preciso: fa i nomi di tutti gli uomini d'onore coinvolti nella fase dell' organizzazione dell'attentato - Fifetto Cannella, Renzino Tinnirello, Nino Mangano -, del meccanico che aggiustò la 126.
La memoria vacilla solo quando parla dell'uomo misterioso: il personaggio che il collaboratore incontra nell'ultimo garage usato per nascondere la macchina. «Non so chi fosse - dice - non ricordo il suo volto, aveva circa 50 anni, non l'avevo visto prima, di certo non era di Cosa nostra». Una presenza estranea al mondo mafioso, dunque, come estranea alle cosche sarebbe stata la «mano tecnica» che avrebbe curato la preparazione dell'esplosivo. «Una mano diversa», puntualizza Spatuzza.
Quando si occupò del furto della 126 e delle targhe Spatuzza non sapeva quale fosse l'obiettivo da eliminare. «Ero consapevole, però - spiega - che stavamo per fare una strage».
Il sabato prima dell'esplosione Graviano gli dice di andarsene lontano da Palermo perchè il giorno dopo ci sarebbe stato qualcosa. Spatuzza obbedisce e va nella villetta che aveva in affitto a Campofelice di Roccella. Non fa domande, come quando, anni dopo, il capomafia di Brancaccio gli rivela che dopo le stragi di Milano, Firenze e Roma, nel ‘93, si doveva andare avanti perchè «c'era di mezzo qualcosa che, se andava a buon fine, ne avrebbero avuto giovamento tutti, anche i carcerati».
Poi Spatuzza rivela che Graviano lo incaricò di comprare un aereo telecomandato e di «fare delle prove per trasformarlo in bomba volante caricandolo con una quantià di esplosivo».
Davanti all'obiezione di Spatuzza che Cosa nostra «stava cominciando a fare morti che non le appartenevano», Graviano tronca il discorso. E pensa all'attentato, poi fallito, allo stadio Olimpico, in cui dovevano morire centinaia di carabinieri. «Qualche settimana prima della data fissata per la strage, che doveva avvenire il 23 gennaio del 1994, incontrai Graviano al bar Doney, a Roma - dice Spatuzza - Era felice. Mi disse che avevamo il Paese in mano grazie a delle persone serie. Poi mi fece il nome di Berlusconi e del nostro compaesano Marcello Dell'Utri».