Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 3/2013, Le tentazioni della cultura.
Nell’ottobre 1347, da una galea genovese proveniente da Caffa, nel Mar Nero, sbarcò a Messina un piccolo roditore. Il ratto, di questo si trattava, portava con sé un batterio capace di seminare il terrore in tutto il mondo fino allora conosciuto. La peste bubbonica, definita anche “morte nera”, inizia, così, a infettare l’Europa, dove, nei cinque anni successivi, falcidiò un terzo della popolazione. Nella sola Firenze, già indebolita quell’anno da una tremenda carestia, nell’agosto del 1348 morirono oltre 45.000 persone, riducendo di oltre la metà la popolazione cittadina. In quel 1348 era a Firenze Giovanni Boccaccio. Nel pieno della maturità, a 35 anni, l’autore assistette in prima persona agli effetti della devastante malattia e fu capace, poi, di sublimare il terrore nell’opera che, più di tutte, lo ha reso famoso, il Decameron.
Di Giovanni Boccaccio, nato a Certaldo, vicino a Firenze, nel 1313, ricorrono quest’anno i settecento anni dalla nascita. Una ricorrenza importante che Sul Romanzo festeggia in compagnia di un ospite eccezionale, che a lungo ha lavorato sui testi del Boccaccio e che, per le moltissime affinità, potrebbe essere definito il Boccaccio dei giorni nostri. Dario Fo, premio Nobel per la Letteratura nel 1997, oltre a tanto altro è anche scrittore, drammaturgo, pittore e artista impegnato nell’instancabile ricerca delle origini del teatro moderno, come fu, settecento anni fa, proprio Giovanni Boccaccio.
Sorride al paragone, Dario Fo, e inizia subito a raccontare l’origine del suo lavoro.
«Sì, Boccaccio è un testimone della grande tradizione italiana ed europea, una tradizione sulla quale ha lavorato per una vita, cercando, scovando e rielaborando storie, favole antiche e fabliaux, gli osceni racconti in versi di derivazione latina e greca. Ci sono delle favole, come quella del Calandrino e l’elitropia, in cui alcuni fanno credere a questo personaggio, ingenuo, credulone e sciocco di essere diventato invisibile grazie ai poteri di una pietra, che Boccaccio trae direttamente dalla tradizione medievale dei fabliaux».
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