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Speciale ELCIF (1): Hive Division

Creato il 16 novembre 2010 da Okamis

Speciale ELCIF (1): Hive Division

Primo canale. Un uomo da mezz’ora è indeciso su quale pacco scegliere, mentre alle sue spalle la moglie in lacrime lascia un’intervista a un presentatore con tre file di denti talmente bianchi da costringere i telespettatori a indossare gli occhiali da sole (ovviamente 3D).

Secondo canale. Settima replica di Ausiliari della sosta, copia di una quasi omonima serie inglese, a sua volta ispirata da una sit-com austro-finnico-ungherese del ’75.

Terzo canale. Steven Segal torna indietro nel tempo per uccidere Hadolf Hitler, Godzilla e una tribù Masai che passava di lì per caso a colpi di panza trasbordante dai pantaloni (e già che c’è causa l’estinzione del dodo).

Quarto canale. Una racchia si toglie gli occhiali e si slaccia due bottoni della camicetta ricordandosi solo in quel momento di essere una fotomodella svedese di ventiquattro anni con la quarta di reggiseno.

Quinto ca…



Ok, d’accordo, la TV italiana non è proprio a questi livelli. In effetti è peggiore.

Ora, si potrebbe discutere per ore del perché di una tale tristezza nei palinsesti, di come i produttori siano per lo più gente che guarda al target degli over 50 invece che a quello degli under 30 e di molto altro. Ma non questa volta, e questo perché oggi voglio parlare di alternative. O meglio: di come (e perché) nascono tali alternative. Ecco allora partire una serie d’interviste tra operatori del settore degli indie movie italiani, suddivisi in quelle che potrei definire tre categorie complementari ma non del tutto sovrapponibili. Si comincerà quindi con quei gruppi di cineasti indipendenti che da anni investono soldi e energie nella realizzazione dei loro sogni di celluloide, per proseguire con alcuni studi grafici che nulla hanno da invidiare ai vari Pixar et similia e infine concludere parlando d’istruzione e formazione.

Ad aprire le danze sono dei ragazzi che ho già avuto modo di presentare su questi lidi: gli Hive Division, ovvero gli autori di Metal Gear Solid: Philantrophy, e nello specifico Giacomo Talamini e Valentina Paggiarin, rispettivamente regista e sceneggiatrice. Se ho scelto loro come prime vittime sacrificali è semplicemente perché tutto è partito proprio dal loro film. Già ai tempi della recensione di Philantropy avevo infatti contattato Valentina per proporre loro una breve intervista via Skype o MSN. A causa però di una serie d’impegni da ambo le parti, il tutto è stato posticipato alla primavera successiva, oltretutto a casa proprio di Valentina e Giacomo. Quella che segue è la cronaca di buona parte della conversazione di quella sera.

Speciale ELCIF (1): Hive Division

Chi sono gli Hive Division?

GT: Hive Division è un gruppo appassionati di cinema che vuole porsi come alternativa al cinema italiano, con l’obiettivo di diventare un giorno uno studio in grado di rivolgersi all’estero. Contando tutti i collaboratori più o meno occasionali, siamo in un centinaio, mentre la squadra fissa è composta da una ventina di persone tutte motivatissime.

Com’è nato il desiderio di trasformare gli amici che “giocano” a fare il cinema in un vero e proprio studio?

GT: Strada facendo. Tutto è cominciato tempo fa con la realizzazione di un cortometraggio diciamo “non molto riuscito”. Da lì è seguito il prologo di Philantropy, il cui lavoro di realizzazione vero e proprio è partito con tremendo ritardo perché non riuscivamo a trovare un attore che interpretasse Snake. Dopo un anno di ricerche infruttuose le possibilità erano due: non fare il film o prendere io le parti del protagonista. Alla fine abbiamo scelto questa opzione, anche se per me è stata una cosa di un disagio tremendo. Va poi aggiunta una cosa. Dopo aver realizzato il prologo avevo perso serenità, e questo un po’ perché ai tempi ero all’apice della mia passione per MGS (ora un po’ scemata), un po’ perché avevo abbandonato i panni da ragazzo che si diverte a girare con gli amici per indossare quelli di una persona ambiziosa. Tutto questo mi ha portato, in maniera all’inizio assolutamente inconscia, ad aumentare le pretese che avevo sulle persone che lavoravano con me, oltre a qualche problema con alcuni carissimi amici, perché man mano che andavamo avanti io ho superato una certa linea e loro no.

VP: Il fatto è che da una parte alcuni vedevano questo corto come un’occasione per imparare anche un lavoro, mentre altri continuavano a considerarlo come un passatempo. E in questo non c’era nessunissimo male, però a un certo punto è stato necessario chiarire la questione.

GT: Così alla fine della realizzazione del prologo ci siamo ritrovati con una parte di team che ha detto “ok, questa è la mia fermata”, e non perché non vedessero un futuro come Hive, ma perché non volevano un futuro come Hive. Visto però che eravamo rimasti abbastanza soddisfatti della qualità del cortometraggio, decidemmo di fare un nuovo tentativo, ma questa volta in maniera molto più seria.

Speciale ELCIF (1): Hive Division

Tutto questo accadeva grosso modo quando?

GT: Fine 2005, inizio 2006. Proprio a inizio 2006, in un mese circa, scrissi la sceneggiatura dell’intera nuova trilogia. Quindi tra Primavera ed Estate raccolsi buona parte del materiale che ci serviva. A Settembre infine cominciammo con le riprese. Il resto è storia, o quasi.

VP: Il nuovo metodo di lavoro comunque ci ha ripagato, proprio perché molte persone si sono sentite motivate a partecipare non solo perché gli piaceva MGS, ma perché volevano anche costruirsi uno showreel. Ad esempio, se qui ci fosse Alessandro, il nostro VFX Supervisor, direbbe che lui ha imparato il mestiere commettendo degli errori sul set proprio come VFX Supervisor. Errori che poi pagava come Compositor, dato che era lui a dover creare le scene al computer. Il senso della squadra, quindi, era che ognuno cresceva come individuo e nel frattempo faceva crescere la squadra stessa.

Poi però vi siete allargati anche a livello internazionale…

VP: Sì, e questo soprattutto per merito di quello che abbiamo chiamato “Next Gen Trailer”. Anche lì, quando lo abbiamo visto la prima volta ci siamo detti “ok, bellissimo, però il parlato…”.

Come mai avete proprio deciso di recitare in inglese e in seguito di far doppiare il tutto da un team di professionisti?

GT: Semplicemente per puntare a un pubblico internazionale. Bisogna poi anche considerare due fattori. Uno: il gioco è giapponese, ma la versione che arriva a noi è quella inglese. Due: buona parte dei nostri attori è veneta, il che comportava un “leggero” problema di accento. Alla fine avremmo avuto comunque bisogno di doppiatori italiani, altrimenti ne sarebbe uscito fuori un film di spionaggio goldoniano. Ultimo appunto da fare è poi che è molto difficile trovare doppiatori italiani senza la puzza sotto il naso. Paradossalmente, è più facile trovarne d’inglesi, e questo per via di un concetto di professionalità completamente diverso dal nostro. Molti buoni professionisti stranieri hanno la filosofia del “guadagno molto o lavoro gratis, ma non guadagno poco”. Quindi quando beccano dei progetti indie che reputano interessanti i più si dimostrano disponibili anche a lavorare senza ricevere nulla in cambio se non la fama.

Quanto pensate abbia contribuito al risultato finale il doppiaggio di Philantropy?

GT: Tantissimo. Diciamo pure che un buon 70% del risultato finale.

Siete stati voi a contattare Sacramento, Dodge e gli altri doppiatori oppure sono stati loro a farsi avanti?

GT: Né l’una né l’altra. In verità sono stati contattati dal nostro musicista, Daniel James, il quale conosceva di persona uno dei suddetti doppiatori, il quale a sua volta conosceva gli altri. Una delle cose più belle di Philantropy è stato proprio questo “ciclo esponenziale”, ovvero il vedere come molta gente si sia unita al progetto grazie al prologo, il che ci ha permesso di dar vita al primo trailer, che a sua volta ha trascinato ulteriori persone. E Daniel James è una di queste. Lui è arrivato a noi proprio grazie al Next Gen Trailer, la cui musica era stata composta da dei ragazzi italiani, tra cui un nostro caro amico, Roberto.

Speciale ELCIF (1): Hive Division

Proprio riguardo il Next Gen Trailer, come mai alla fine avete deciso di abbandonarne la track musicale?

GT: Perché per quanto bella a livello di qualità audio non aveva molti punti di contatto con il resto della colonna sonora composta da Daniel. Qualcosa comunque è sopravvissuto di Roberto. Ad esempio la scena di battaglia finale è basata proprio sulla sua musica, la quale è stata solo rielaborata da Daniel.

Invece le modifiche a livello di battute e montaggio a cosa sono state dovute?
VP: Principalmente perché alcune inquadrature erano state inizialmente pensate, montate e girate ad hoc per il trailer. Comunque dobbiamo dire di essere ancora parecchio soddisfatti di quel trailer, anche più del secondo, forse perché quest’ultimo era più tradizionale e caciarone. Il primo invece è più vicino all’atmosfera di MGS.

“Next Gen Trailer” VS “Trailer 2″. 3… 2… 1… Let’s fight!

Qual è stato invece il vostro pensiero a riprese ultimate?

GT: Guarda, quando finimmo di montare il tutto e lo vedemmo la prima volta, io dissi: “Ragazzi, ce l’abbiamo fatta. Questo non è più un fan movie, ma un brutto film”.

VP: Ragione in più voler fare ora un film bello.

Sempre autofinanziato?

VP: Di idee ne abbiamo molte. Quello che vogliamo fare ora è un visual per rendere l’idea del nostro prossimo progetto. Nel frattempo stiamo assemblando un po’ di materiale per le altre idee che abbiamo. Lo scopo è poi quello di far girare questi trailer per cercare un budget.

GT: Qualche offerta l’abbiamo già ricevuta, però vanno tutte vagliate con attenzione.

Anche estere?

GT: Un paio sì. Le restanti italiane, ma tutte poco serie.

VP: “Poco serie” è un bellissimo eufemismo… Molti sono proprio dei truffatori. Che poi, chi vuoi truffare che non abbiamo una lira?

Speciale ELCIF (1): Hive Division
Ai tempi dell’intervista, Valentina accennò alla passione di Giacomo per il periodo della Prima Guerra Mondiale. Qualche giorno fa sul sito di Hive Division sono uscite alcune immagini, tra cui questa. Un caso?

Sempre a proposito di “difficoltà del mestiere”, tempo fa avevate raccontato anche della demolizione – nel senso letterale del termine – di un set.

VP: È andata così. Ai tempi del trailer Next Gen, le scene furono girate in un’ex industria per la lavorazione dell’alluminio a Marghera, la Sava. Lì però eravamo entrati senza permesso, tanto che a un certo punto arrivarono persino i carabinieri, che però alla fine ci lasciarono continuare a girare per pietà. Solo che visto che quel tipo di scene prevedeva la presenza di moltissime comparse, non potevamo continuare a girare in questo modo. Al che ci siamo messi alla ricerca di una location alternativa, fino a trovare un zuccherificio dove abbiamo girato un’altra serie di sequenze, questa volta tutte autorizzate. Sennonché i proprietari del terreno dovevano fare dei lavori sulla struttura, ma della cosa non ci avevano avvisato. Così un bel giorno arriviamo lì e scopriamo che stava venendo tutto smantellato. Panico; anche perché ovviamente non potevamo tornare alla Sava, dato che la sceneggiatura prevedeva esplosioni, scene di massa ecc. Passano così altri mesi di disperata ricerca, fino a quando Giacomo riesce a mettersi in contatto con l’attività portuale di Venezia e quindi con i nuovi proprietari del terreno occupato dalla fabbrica, i quali ci concedono il permesso di girare. La sfiga ha però voluto che una donna fosse uccisa lì proprio in quei giorni. Altri tre mesi ad aspettare che finissero rilievi e indagini, fino a ottenere l’ennesima autorizzazione a girare dal signor Zanotto dell’attività portuale, che ringrazieremo all’infinito e oltre. È merito suo se siamo riusciti a fare letteralmente quello che volevamo.

GT: La cosa bella è che questa struttura è enorme (sui settanta, ottanta ettari) e prima al suo interno ci muovevamo a piedi, con tanto di attrezzatura. Grazie a Zanotto abbiamo potuto portarci dentro una decina di auto e addirittura un camion militare. Avremmo potuto organizzare persino una battuta di caccia al cinghiale…

La scelta degli attori com’è avvenuta?

GT: In maniera molto eclettica. Un po’ è gente che ho conosciuto a teatro o che avevo visto in altri corti, come nel caso di Patrizia (Patrizia Liccardi alias Elizabeth, nd Okamis). C’è poi anche una percentuale di amici, vedi Marco “Bishop” Saran. Ecco, più che fare un casting, abbiamo cercato di circondarci di persone che facessero al caso nostro.

VP: Il che non significa necessariamente “i più bravi”, bensì spesso quelli più alla mano. Insomma, persone per nulla spaventate all’idea di entrare a far parte di un progetto che sarebbe durato parecchi anni, senza oltretutto mai ricevere mezza lira in cambio. In generale, a parte qualche sporadica eccezione, siamo stati fortunatissimi con la gente che ha partecipato al progetto, anche con le comparse, ragazzi che magari non avevi mai visto, di cui non ti ricordavi il nome e a cui al massimo potevi offrire un panino sul set, ma che nonostante questo si sono dimostrati sempre pronti a fare tutto quello che gli dicevi senza fiatare. Un clima quasi surreale. Dal punto di vista umano, questo è stato senz’altro un progetto incoraggiante.

Una delle caratteristiche che più mi hanno colpito di Philantropy è l’attenzione al dettaglio scenografico. Per fare un esempio, nella scena in cui compare per la prima volta Elizabeth qualsiasi altro mezzo al di fuori dell’Humvee sarebbe sembrato quasi fuori luogo. Proprio tale attenzione quante ulteriori difficoltà vi ha portato?

GT: Guarda, c’è tutta una storia dietro quell’automobile. Sin dall’inizio infatti volevamo usare un Humvee, tanto che ne avevamo addirittura realizzato un modello al computer, finché un giorno non adocchiamo un concessionario di auto estreme e come sempre, senza vergogna, siamo entrati per mostrare al proprietario alcune riprese, spiegandogli nel dettaglio il progetto. E lui ci risponde: “Bello, mi piace. D’accordo, per una mezza giornata posso anche lasciarvi il mio Hummer militare”. E così è stato. Il camion che compare invece nell’ultima parte del film apparteneva a una ditta di autodemolizioni, se non ricordo male. All’inizio ci avevano però chiesto di rimborsargli almeno la benzina. Al che ci siamo dovuti rifiutare, e non per approfittarci di loro, ma perché quando fai un film senza budget, se cominci a cedere con uno poi tutti gli altri cominciano a chiederti: perché a lui hai dato qualcosa e a me no? Così con grande dispiacere diciamo ai proprietari che non se ne faceva nulla, quando questi ci fanno: “Vabbé, dai, ve lo diamo gratis”.

Speciale ELCIF (1): Hive Division

Philantropy, nonostante sia sostanzialmente un fan movie, è oggi considerato uno dei migliori film mai realizzati su di un videogioco. Secondo voi perché è tanto difficile dirigere questo genere di film?

GT: Se tu guardi le fanzine di MGS, vedrai che molti dico “Ah, che bella la trama di MGS1! Rifacciamola!”. Ma non ha senso tutto ciò. MGS è un videogioco, Philantrophy un film. Quello che invece va fatto è prendere la filosofia e la tematica del videogioco e piegarle al campo cinematografico. Nel nostro caso, ad esempio, abbiamo scelto di realizzare una storia originale sia per dare al film un’impronta personale sia per ibridarlo con influenze che io ritenevo mie, in quanto l’approccio da semplice film action non m’ispirava per niente. Non a caso al suo interno ci ho messo elementi più Fantasy, citazioni di Apocalypse now, le mie lentezze alla Oshii, una regia alla Michael Mann nella scena della battaglia… Insomma, o la storia stava in piedi da sola o non aveva nemmeno senso cominciare.

Per chi come voi lavora a livello indipendente la computer grafica è oggi uno strumento quasi obbligato per sopperire alla scarsità di mezzi materiali. Quanto è però rischioso affidarsi in maniera massiccia a essa?

GT: Per quanto mi riguarda, considero la computer grafica come un pennello: neutra. Il discorso è un po’ lo stesso delle armi. Sono materia; è la volontà che poi può dar vita al danno. In mani capaci la CGI ti permette d’impreziosire opere come Il labirinto del fauno, altrimenti si trasforma nel cotone con cui imbottire film vuoti. Alla fine va sempre vista come uno strumento al pari di una lampada o un obiettivo.

VP: Il problema al massimo è che è molto più facile realizzare della buona CGI che scrivere una buona storia.

GT: Su questo non sono del tutto d’accordo. Non credo tanto che sia difficile scrivere buone storie, quanto che molti non le vogliono. Tornando alla domanda iniziale, va comunque detto che è sempre meglio avere mezzi reali piuttosto che virtuali. Ti faccio un esempio: Star Wreck. Quello è sì un ottimo film indipendente, ma soffre del problema di molte pellicole di Fantascienza: dipende troppo dal blue screen. Invece con Philantropy mi sono impuntato per avere sempre un foreground reale anche in quelle scene che necessitavano di tantissima computer grafica. Unica eccezione è la scena del briefing, che però non a caso è anche la scena peggiore del film, proprio perché terribilmente statica.

VP: Senza contare che chiedere ad attori non professionisti d’immedesimarsi in un contesto inesistente è quanto di più difficile possa esserci.

GT: Confermo. Proprio per questo la presenza di una scena quanto più reale possibile è sempre stata un obbligo per me. Inoltre, rispetto a molti film no-budget, una cosa che secondo me rende Philantropy più impressionante da guardare è una cosa molto “nerdica” ma su cui ho sempre insistito tanto, ovvero la presenza di parallasse, quando cioè la camera non è a punto fisso ma ti permette di muoverti a 360 gradi per far capire al pubblico che l’attore si trova in un ambiente vero. Certo, così facendo complichi tantissimo il lavoro di computer grafica perché sei poi costretto a ricreare una camera virtuale partendo da quella reale. Tutto questo però, unito all’uso di dolly, steadycam e quant’altro, rende la regia molto più dinamica e con essa aumenta il coinvolgimento del pubblico. Non a caso uno dei film preferiti da me e Valentina è I figli degli uomini. Quello è il tipo di Fantascienza su cui vorremmo lavorare noi: pochi effetti speciali ma tantissima tecnica.

Semplicemente un film meraviglioso…

Al di là però di quegli aspetti più “materiali”, come è stata l’esperienza di dover allo stesso tempo recitare e dirigere il film?

GT: Orribile e infatti non credo che lo farò mai più.

VP: La nostra fortuna è stata quella di conoscere Mattia, il nostro direttore della fotografia, il quale oltre a studiare già ai tempi questo tipo d’attività è anche molto in gamba come operatore. Insomma, aveva proprio quel tipo di personalità necessaria per sopperire nei momenti di bisogno all’“assenza” del regista. Non solo: spesso s’inventava soluzioni che a noi non passavano nemmeno per l’anticamera del cervello, e il tutto senza mai imbarazzi di sorta.

L’impatto con il mondo della distribuzione invece come è stato?

GT: Ecco, quello rimane ancora un problema. Siamo arrivati al punto che se si vuole realizzare un’opera bisogna prima garantire un ritorno economico, il che è pressoché impossibile. Ormai persino i cinepanettoni non sono più in grado di fare ciò. Il fatto è che in Italia si confonde l’imprenditoria con il lobbysmo. Il nostro è un paese dove gl’imprenditori sono ossessionati dai “contatti” e dalle “sinergie”. Non sentirai mai nessuno dire: “Guarda, ho prodotto cinque film. Due mi sono andati male e tre bene. Ho mezzo milione da investire”. Al contrario sentirai sempre: “Ah, guarda, io ho lavorato con questo. Poi posso presentarti a quest’altro, che a sua volta conosce quest’altro ancora. Ah, e domani ho una cena con…”. C’è l’ossessione delle relazioni personali, che dipende dal fatto che da noi non si vuole più rischiare. Poi però allo stesso tempo, a parole, tutti vogliono puntare sulla novità. Peccato che per novità s’intenda roba alla Medical Dimension (parodia dei serial ospedalieri americani che compare in Boris, nd Okamis). Ci troviamo a dover combattere con un sistema che si riassume in una parola: ottantenni; e non mi riferisco al solo lato anagrafico. Siamo circondati da esperti del settore con mentalità da ottantenni, tutti nei posti giusti (o sbagliati, dipende dai punti di vista) e senza soldi. Perché è inutile girarci attorno: in Italia i soldi non ci sono, e quando ci sono il più delle volte vengono gestiti male.

VP: Aneddoto. Un po’ di tempo fa abbiamo partecipato a una manifestazione di Fantascienza durante il quale è stato proiettato un corto che era l’equivalente del classico compitino da DAMS, con tanto di riferimenti meta-referenziali che piacciono tanto a certi critici, ma che però era una palla colossale. Alla fine della proiezione parte un dibattito durante il quale gli autori del corto sostengono come occorra una legge statale che renda obbligatoria la proiezione di materiale italiano prima dell’inizio di qualsiasi film straniero al cinema. Ma come può tutto ciò aumentare la qualità della produzione italiana?

GT: Come puoi anche pretendere che il cinema italiano si affacci all’estero quando l’unico metodo di finanziamento fa partire la realizzazione di un film con sei anni di ritardo – perché quelli sono i tempi necessari per ottenere i fondi ministeriali – e comunque solo se la pellicola soddisfa certi requisiti di promozione territoriale, di italianità, di valorizzazione culturale e storica, quando poi basterebbe creare un sano clima di competizione tra case di produzione e film con mission vere?

VP: Il fatto è che di gente che vuole fare ce n’è tanta, anche all’interno degli uffici; peccato che ci sono troppi responsabili, il che porta al paradosso che alla fine nessuno è responsabile della decisione finale.

GT: Poi magari nel nostro campo questo problema si nota di più perché per fare un film occorrono molti più soldi, ma alla fine la medesima situazione la si ritrova in altri campi. La cosa più triste è che disponiamo di grandissime individualità, e quando una di queste vince, per fare un esempio, un Oscar, improvvisamente sembra che la vittoria coinvolga l’intero sistema Italia, quando non è assolutamente vero.

Si è parlato di “vecchiaia” intesa dal punto di vista di concezione del mercato. E in effetti il cinema fantastico (e più in generale il cinema di genere) ha visto pochissimi esemplari di qualità prodotti in Italia negli ultimi anni, tanto che nel campo della Fantascienza forse il più “recente” è addirittura Nirvana di Gabriele Salvatores (e siamo nel 1997!). Tuttavia negli ultimi tempi la produzione di film di genere ha preso ad aumentare. Penso a film come Smile, The butterfly zone, Cuccioli, tutti però purtroppo accomunati da un livello qualitativo bassissimo. Volevo quindi sapere: secondo voi queste produzioni, nate forse più dalle mode estere che da reali mission, rischiano di fare più male o più bene al cinema di genere italiano? Possono portare all’idea che da noi un certo cinema sia impossibile, provocando un’ulteriore fossilizzazione sui vari cinepanettoni e film d’impegno sociale?

VP: Quello che temo è che la qualità sia l’ultimo dei pensieri tra i produttori, il tutto a favore delle mode che arrivano dall’estero. E la cosa che mi fa più paura è che questi film di “ispirazione estera” possano essere affidati alla fine alle stesse persone che è già tanto se sanno fare un cinepanettone.

GT: A mio avviso invece non fanno né male né bene. Se vanno male non danno vita a nessun mutamento rispetto alla situazione attuale, portando come dicevi alla concezione che questo genere non sia nelle nostre “italiche corde” (quando poi magari, se affidati alle persone giuste, tali progetti farebbero fare i milioni). Se avranno successo, invece, i successivi progetti verranno affidati sempre alle stesse persone che continueranno a realizzare film sì di genere, ma anche di scarsa qualità. Per cui in un caso o nell’altro, i prodotti o non esisteranno o faranno schifo, mentre la gente come noi continuerà a non lavorare, o tutt’al più lavorerà malissimo fino a farsi passare la voglia di continuare con questo campo. L’unica possibile svolta sarebbe un “caso Alfa”: un bel film Fantastico o di Fantascienza che faccia aprire gli occhi ai produttori e che, se mai ci sarà, verrà senz’altro realizzato senza di loro, perché la loro presenza sarebbe solo un fattore impedente. Solo a quel punto si potrebbe scatenare la gara per diventare i nuovi numeri due, tre o quattro (perché i numeri uno comunque non lo saremo mai).

Speciale ELCIF (1): Hive Division

Recentemente Brando de Sica ha scelto il Fantasy, pardon fentesiii1 “Buio” di Elena P. Melodia per la sua seconda regia. Temo che Giacomo e Valentina siano stati persino sin troppo ottimisti…

Una tale situazione v’innervosisce?

VP: Non più di tanto. Ormai ne abbiamo preso atto. Preferiamo concentrarci nel creare un’alternativa. Noi non vogliamo inserirci nel circuito italiano, non speriamo di trovare un giorno il produttore bravo. Insomma, non ha senso arrovellarsi al pensiero di non appartenere a un’elite cannibale che si sta consumando da sola. Il nostro obiettivo è quello di realizzare quello che ci piace. Se poi tutto ciò un giorno avrà anche successo, tanto di guadagnato.

GT: Ci penserà Darwin a fare il suo lavoro. E poi è anche ora di smetterla di ragionare come se l’Italia fosse l’unico mercato. Ormai siamo in Europa e non a caso noi facciamo film in inglese.

Considerando però che la stragrande maggioranza del vostro pubblico è composto da meri appassionati, quale pensate debba essere il passo successivo? Mi spiego meglio: come diceva prima Giacomo, voi siete già riusciti a passare dalla realizzazione di un buon fan movie alla realizzazione di un brutto film. Ora, sperando che il prossimo brutto film sia in verità un buon film, come pensate si possa riuscire a far diventare un film d’appassionati in un film di massa?

GT: In Italia non ci spero nemmeno lontanamente di poter fare questo passo, anche perché il nostro è un pubblico minuscolo. L’obiettivo è proprio quello di pensare sin dall’inizio al mercato estero. Ma soprattutto dobbiamo dimostrare di essere capaci anche noi di realizzare film di qualità pur con budget ridotti all’osso. Poi magari il guadagno finale sarà altrettanto ridotto, ma pur sempre molto più elevato rispetto alla spesa iniziale, così da poter investire quelle risorse in progetti sempre migliori.

VP: C’è poi la questione dell’uscire dalla porta per rientrare dalla finestra. Se tu riesci ad avere un certo successo all’estero, poi è molto più facile essere accettati anche in Italia. Perché a noi italiani piace guardare all’esterno, senza però renderci conto che saremmo altrettanto bravi a farci guardare. Poi, paradossalmente, è proprio grazie a questa malata struttura italiana che sono possibili progetti come Philantropy o i film dei Fabio&Fabio e degli altri gruppi indie.

Ed eccoci alla fine della prima parte. Per il momento non aggiungo nulla, e questo per due ragioni. La prima è che l’intervista a Valentina e Giacomo è già di suo una delle più lunghe tra quelle che faranno capolino in questa serie. La seconda è che come si noterà già settimana prossima con il pezzo dedicato ai D.E.M. (così come nelle puntate successive) non sono poche le analogie tra le esperienze dei vari gruppi indie, il che darà spazio a qualche riflessione che ora rischierebbe di essere solo prematura…


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