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Zero Dark Thirty non chiede e non offre nulla allo spettatore, di sicuro non lo spettacolo rassicurante del cinema che fa andare a posto i pezzi uno dietro l'altro: semplicemente, cerca e fruga nella realtà per tirar fuori un senso dal presente. La lunga e bellissima sequenza in cui gli agenti americani localizzano un sospettato in un mercato di Islamabad è una metafora perfetta di cosa significhi per la Bigelow essere immersi nella realtà, con gli occhi e le orecchie che vedono e ascoltano tutto, con la luce del sole che dischiude ogni angolo oscuro, ma con la totalità del reale che in realtà rende ciechi, non dà punti di riferimento all'occhio e alla mente. Allo stesso modo, l'assalto al fortino di Bin Laden, così sicuro eppure così rischioso, così certo nel suo esito finale eppure così spaventosamente fragile, è pura suspense, un incrocio di instant movie e meccanismo alla Hithcock, sospensione tra caos e buio da una parte, certezza e visibilità dall'altro. Gli agenti della CIA, come lo spettatore, sanno tutto, ascoltano e vedono tutto (dove un tizio telefona in una piazza con migliaia di persone, dove una donna stende il bucato in una casa invalicabile...), ma per completare il quadro manca sempre un pezzo, la conoscenza completa della realtà è impossibile, c'è solo da tentare e guardare.
Tutte queste riflessioni su Argo e Zero Dark Thirty, che ho visto mesi fa e su cui non ero mai soffermato, mi sono nate dopo la lettura di Miele di Ian McEwan, che è un libro appassionante e geniale e l'ulteriore riprova che l'arte respira l'aria dei tempi, e spesso la condiziona. Miele, infatti, parla pure lui di servizi segreti, di storia passata (i primi anni '70 nell'Inghilterra della crisi petrolifera), di arte al servizio del potere, di racconti che celano e camuffano la verità. Rispetto alla Bigelow, che del suo film è autrice e personaggio, riconoscendosi lei stessa nella solitudine della protagonista, la motherfucker che scova Bin Laden ma non viene fatta sedere al tavolo degli uomini, lo scrittore co-protagonista del libro di McEwan è inconsapevolmente in rapporto con i servizi segreti, fa parte della macchina del potere e non lo sa: ma allo stesso modo, come dimostra attraverso il suo lavoro, che nel libro si legge alla maniera del migliore Irving, cioè come racconto nel racconto, come trama minore che rispecchia le tensioni della trama maggiore, lo scrittore sa che è la forma del romanzo, la sua stessa lingua, più del suo contenuto e dei suoi trucchi narrativi, a fare della scrittura un atto politico e necessario. Se dicessi come e perché, sarei un criminale: perché nel caso di Miele lo spoiler anche minimo rovinerebbe al potenziale lettore il piacere della scoperta. Il fatto, però, è che il punto sta proprio lì, nella riflessione su come la scrittura sia la sorgente del reale, e non viceversa. E anche come lo stesso atto di leggere sia di per sé una forma di partecipazione alla Storia.
Se il cinema di oggi è tutto giocato sulla consapevolezza dello sguardo, sulla moralità dell'approccio verso la realtà, McEwan, almeno mi è parso, fa altrettanto con il romanzo, ponendo alla base di Miele questioni che riguardano il valore della scrittura e della lettura e immergendo sia il suo libro sia il lettore in quella realtà che nessuno riesce mai veramente a cogliere e di cui però tutti facciamo parte, personaggi e autori noi stessi di un gioco che ci vede come vittime e come carnefici.
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