Ha decisamente l’aspetto del classico nerd, il “secchione” da college americano, l’uomo che in queste ore è diventato il fuggitivo più ricercato del mondo. Edward Snowden, l’ex tecnico informatico della CIA e della NSA ricercato dagli Usa per aver rivelato al quotidiano inglese The Guardian l’esistenza del PRISM, il programma di intercettazioni telefoniche poste in atto dalle agenzie per la sicurezza nazionale americane, è sparito: nessuno sa dove sia, forse su un volo diretto a Cuba o in Sudamerica, o forse semplicemente a Mosca, in una zona riservata dell’aeroporto di Sheremetevo oppure in qualche luogo segreto sotto protezione del governo russo, che nelle scorse settimane non aveva escluso di potergli concedere asilo politico se fosse pervenuta una sua regolare richiesta. Una vicenda dai contorni ancora oscuri, che ha assunto le fattezze di una spy-story da quando l’uomo ha lasciato Hong Kong, dove si era rifugiato, a bordo di un aereo dell’Aeroflot diretto nella capitale russa. Ora, basta il fatto che Mosca s’interessi alle sorti di Edward Snowden per affermare che l’ex informatico è una spia russa all’interno della CIA? In realtà, è più probabile che l’appoggio indiretto alla fuga dell’ex informatico sia una ritorsione del Cremlino verso gli Usa dopo la recente vicenda di Ryan Christopher Fogle, il diplomatico-agente della CIA fermato lo scorso 13 maggio dai servizi russi con l’accusa di aver tentato di assoldare uomini all’interno delle forze di sicurezza di Mosca, per conto degli Stati Uniti.
Seppur aventi come protagonisti due uomini dall’aspetto molto lontano dall’iconografia classica dello 007, le due vicende, in un certo senso, riportano alla mente le guerre di spie che nella seconda parte del XX secolo furono combattute per conto delle ideologie che reggevano i due blocchi americano e sovietico. Storie degne della miglior letteratura di genere, che più volte seppe trarre spunto dalle gesta di tali eroi, spesso negativi, spesso sfociate nella tragedia.
L’uomo dei 13 giorni
Chi si diletta nel poker conosce bene l’importanza del bluff: per costringere l’avversario a commettere un passo falso, occorre essere abilissimi a dare l’impressione di poter agire in una certa maniera, soprattutto quando non se ne ha realmente le possibilità. La gestione di una crisi internazionale come quella di Cuba del 1962 richiese agli Stati Uniti una capacità di attesa e riflessione degna del miglior pokerista: al tavolo, che per l’occasione era l’isola caraibica dove l’Unione Sovietica aveva installato rampe missilistiche puntate verso la East Coast, nell’ottobre di quell’anno sedevano John Kennedy e Nikita Krusciov, impegnati in un duello di nervi, in cui il minimo errore avrebbe significato la terza guerra mondiale. Sappiamo come finì: i sovietici furono costretti a desistere dai loro piani missilistici dalla fermezza con cui JFK vi si era opposto in quei lunghissimi tredici giorni. Ma si sa che Kennedy, dietro la sua immagine romantica e idealista, era un uomo molto pragmatico, che mai avrebbe scelto la linea della fermezza se non avesse ben ponderato l’opzione, grazie alle preziose informazioni che la CIA aveva ottenuto sulle reali potenzialità di Mosca. Che provenivano da una fonte tanto attendibile quanto vicinissima alle stanze dei bottoni del Cremlino: Oleg Penkovskij, colonnello del GRU, il servizio segreto militare sovietico.
Grazie al suo status di membro di una delle tante delegazioni scientifiche sovietiche, che alla fine degli anni Cinquanta si recavano in Occidente per mostrare i progressi tecnologici dell’Urss, Penkovskij aveva iniziato a relazionarsi con uomini della CIA e dei servizi britannici, fino a divenire, nel 1961, uno dei loro più importanti agenti a Mosca. Mosso dalla disillusione nei confronti del comunismo e soprattutto dall’intento di evitare che la tensione tra Usa e Urss sfociasse in un conflitto nucleare, Penkovskij aveva iniziato ad informare la CIA in maniera dettagliata e costante sull’effettiva capacità d’attacco russa: e nella tarda estate del 1962 fu lui a riferire dei missili che i sovietici stavano installando a Cuba, sicuri che gli americani non li avrebbero localizzati prima della loro messa in servizio.
Così sarebbe andata se Penkovskij non avesse allertato la CIA sulla costruzione di quelle rampe a poche miglia dalla Florida, fornendo i precisi dettagli tecnici su rischi reali di quelle batterie in costruzione. Annullando di fatto l’effetto sorpresa con il quale Krusciov intendeva mettere Kennedy con le spalle al muro, le “soffiate” di Penkovskij permisero agli Usa di scegliere l’opzione migliore per la situazione, evitando l’invasione dell’isola caraibica e spingendoli verso una linea della fermezza, che di fatto spiazzò Krusciov e il suo bluff. Intanto, proprio per questo Penkovskij si era esposto troppo per non rischiare di “bruciarsi”: resosi conto dell’esistenza di una talpa all’interno delle alte sfere istituzionali, il KGB iniziò a sospettare di lui e dei suoi possibili legami con la CIA, e il 22 ottobre, prima che la crisi cubana entrasse nella sua fase più critica, lo arrestò. Dopo un breve processo, il colonnello Penkovskij venne condannato a morte per tradimento e spionaggio, e giustiziato il 16 maggio 1963.
I cinque di Cambridge
Donald Maclean, Kim Philby, Guy Burgess, Anthony Blunt e John Cairncross erano dei brillanti studenti inglesi dell’Università di Cambridge quando iniziarono la loro attività spionistica in favore dell’Unione Sovietica, alla fine degli Anni Trenta. Comunisti convinti, tutti e cinque appartenevano a famiglie d’estrazione medio-alto borghese: avrebbero faticato molto ad adattarsi a vivere in Urss, ma erano perfetti per rendere preziosi servigi al Cremlino infiltrandosi nelle aristocratiche istituzioni della British Society.
Anthony Blunt, esperto d’arte, era stato il primo delle “Cinque stelle di Cambridge” (così vennero ribattezzati) ad essere convertito alla causa della lotta all’imperialismo angloamericano, reclutando lui stesso John Cairncross, studioso di filologia francese, il quale, probabilmente, fu il primo agente a informare i sovietici della decisione di inglesi e americani di costruire la bomba atomica. Guy Burgess era invece membro dell’Information Research Departement, creato con lo scopo di controbattere la guerra psicologica sovietica, ma con le sue “soffiate”, annullò di fatto tutte le attività della struttura in cui lavorava.
Kim Philby, Primo segretario dell’Ambasciata della Gran Bretagna a Washington dal 1949, svolgeva un ruolo di ufficiale di collegamento tra il servizio segreto britannico (SIS) e la neonata CIA. Tuttavia, nelle sue attività per conto dei sovietici, Philby segnalava al KGB gli agenti infiltrati da Gran Bretagna e Stati Uniti in Russia, nei Paesi Baltici, in Albania, consentendone la cattura e facendo fallire molte missioni. Sempre a Washington “operava” Donald Maclean, che in qualità di Secondo segretario dell’Ambasciata britannica, aveva invece accesso agli atti della Commissione per l’Energia Atomica, e non ebbe particolari difficoltà a trasmettere a Mosca documenti fondamentali per il completamento del programma nucleare sovietico: fu principalmente grazie a lui che la prima bomba atomica sovietica fu fatta esplodere già nel 1949, molto in anticipo rispetto alle stime di americani e britannici, e agli evidenti limiti tecnologici dell’Urss.
Un’accelerazione troppo repentina per non scatenare sospetti da parte del controspionaggio inglese ed americano, che grazie a VENONA, un nuovo sistema di decrittazione congiunta volto a decodificare i messaggi spediti dalle agenzie di spionaggio sovietiche, nel 1951 scoprì proprio da Washington una fuga di notizie sulle installazioni nucleari alleate. La decifrazione fu resa possibile grazie ad un errore commesso da un agente sovietico, nome in codice Homer, che era la copertura di Donald MacLean.
Incaricato di scovare la spia, Philby invece avvertì MacLean che ormai la sua identità segreta era “bruciata”, e nel maggio 1951 l’uomo fuggì a Mosca insieme a Guy Burgess. Questa fuga precipitosa portò a concentrare l’attenzione del SIS e della CIA proprio su Philby, ritenuto un possibile complice delle due spie russe. Nonostante i pedinamenti degli 007 e i numerosi interrogatori, Philby non commise passi falsi, allontanando da sé ogni forma di sospetto e continuando pertanto nel suo compito di fornire informazioni ai sovietici. Nel 1956, in piena crisi di Suez, si trasferì Beirut per il suo nuovo incarico all’interno dei servizi britannici, muovendosi sotto le mentite spoglie di un giornalista dell’Economist. Nel 1962, quando sembrava ormai che l’avesse fatta franca, venne improvvisamente smascherato, non è chiaro se involontariamente, da tale Flora Solomon, che durante un party a Tel Aviv con alcuni amici raccontò di “tale Philby”, un giornalista inglese che a Beirut simpatizzava per gli arabi e lavorava per i sovietici da sempre.
Il controspionaggio inglese raccolse l’informazione e mise sotto controllo Philby, che però, fiutato il pericolo, nel gennaio 1963 scappò tempestivamente a Mosca, dove morì nel 1988, vittima dell’alcol in cui aveva sfogato la sua delusione per un comunismo che era molto diverso da quello che lui aveva sempre immaginato.
Anthony Blunt, la quarta “stella di Cambridge”, venne interrogato più volte dagli 007 britannici, davanti ai quali ammise la sua attività in favore dei sovietici e raccontò tutta la verità sulla rete spionistica di Mosca in Gran Bretagna, chiedendo solo che il suo nome non venisse divulgato per evitare uno scandalo. Morì nel 1983. L’ultima delle Cinque Stelle rimasto in vita, John Cairncross, fu “incastrato” da alcuni documenti ritrovati nella casa di Burgess, nei quali veniva fatto il suo nome. Ammise sotto interrogatorio di avere trasmesso alcune informazioni a Mosca, ma negò fermamente di essere mai stato una spia. Si trasferì a Roma all’inizio degli anni Sessanta, dove lavorò presso la FAO fino al 1964. Riuscì a nascondere il suo ruolo fino al 1979, quando uno scoop giornalistico ne svelò l’ingombrante passato. Morirà nel 1995.
Il “compagno champagne”
La conferma delle attività spionistiche di Cairncross giungerà poi nel 1990 anche da parte di Oleg Gordievskij, agente del KGB al soldo degli inglesi fin dalla metà degli anni Settanta, e scappato dall’Urss nel 1985 con una rocambolesca fuga in un bagagliaio di un’auto diretta in Finlandia. Gordievsky aveva iniziato il suo doppio gioco quando era di stanza all’Ambasciata sovietica di Copenaghen, per poi perfezionarlo durante il suo incarico di agente del KGB “residente” nella legazione diplomatica di Londra dal 1982 al 1985. Accusato di essere una spia nemica, nell’estate 1985 fu messo agli arresti domiciliari, da cui evase per fuggire in Inghilterra grazie alla complicità di agenti segreti britannici. Il suo passaggio tra gli 007 inglesi fu però criticato da alcuni tabloid dell’epoca, che gli rinfacciarono di aver abbandonato l’Urss principalmente per denaro: secondo il Daily Mirror, per il suo nuovo ruolo di “consulente” dell’intelligence britannica Gordievsky avrebbe ricevuto un compenso da duecentocinquantamila sterline, una villa con terreno in Scozia, una lussuosa automobile ed un vitalizio mensile. Eravamo allora negli anni Ottanta, l’aspetto ideologico della contrapposizione Usa-Urss andava lentamente scemando. E da buona spia, a quanto pare, Gordievsky aveva subito percepito questo sottile mutamento di clima. Adeguandosi di conseguenza.