Anna Lombroso per il Simplicissimus
“Oggi – riferiva ieri la soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei – è stato riscontrato il cedimento di un tratto di circa 2 metri cubi di muratura in opera mista pertinente ad una domus lungo il vicolo di modesto nella Regio VI, in una zona della città antica scavata agli inizi dell’800 e già da tempo inibita al pubblico”. Un muro di pietra grezza, nei pressi del vicolo di Modesto, ha ceduto all’interno degli scavi di Pompei, probabilmente a causa delle forti precipitazioni degli ultimi giorni. Il muro si trova in una zona chiusa al pubblico, dove sono già previsti gli interventi di messa in sicurezza del “Grande progetto Pompei”. Possiamo dunque stare tranquilli, perché la soprintendenza aggiunge: “La messa in sicurezza dell’intera area – sottolinea la soprintendenza – è una delle priorità del ‘Grande progetto Pompei’ e il relativo bando è di imminente pubblicazione”.
Senza scomodare le contese tra Keats e Viollet Le Duc, c’è di sicuro una bella differenza tra rovine e macerie, le prime, costrette magari a cedere a nuove pur precarie funzionalità, ma sospese in uno spazio atemporale, irriducibile alla storia, le seconde invece segno di una disfatta umana, coperte dalla polvere e dal silenzio dell’impotenza.
E le rovine di Pompei sono diventate inesorabilmente e ineluttabilmente macerie, in barba a bandi di gara, detriti smart, grandi progetti per grandi mecenati, che al risanamento di un’area archeologica – si sa che gli è più cara la visibilità della reputazione – preferiscono colossei e mausolei, perfetti da apporre su loghi, marchi e griffe. Monti con sussiego ha ricordato, in occasione della presentazione del Grande progetto Pompei, che “da come agiremo sul nostro patrimonio artistico e archeologico, dipende molto dell’immagine che potremo avere come Paese”. Beh non dovevamo essere preceduti da una buona fama se quando è andato negli sceiccati ha dovuto contribuire di “tasca nostra” pur di liquidarci.
Sarà anche vero che di Pompei, come di tutto il nostro territorio, i media si accorgono solo quando diluvia, ma non è solo perché sono le cattive notizie a essere “buone” e a fare cassa e audience. È che agli annunci, si sa, non segue nulla e si rischia di essere talmente abituati a sbriciolamenti e sgretolii, da non accorgerci, quando piove, che si trasformano in calamitose demolizioni.
Infatti da aprile quando con gran pompa di pragmatica determinazione e spolvero di progressivi ministri intenti a una proficua collaborazione – salvo l’appartato ministro competente, il silenzioso Ornaghi – è stato presentato al mondo il “Grande progetto Pompei”: 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico, nemmeno la pioggia ha rotto il silenzio calato sulle rovine. Sempre Monti, allora: “Gli obiettivi del nostro programma sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio”, all’oscuro che i comportamenti criminali sono di vario tipo e potremmo assimilarvi anche l’incuria, lo sfregio del bene comune e quella forma di corruzione morale che potrebbe persuaderci perfino a rimpiangere l’attivismo camorrista, già sperimentata in tema di rifiuti, a fronte dell’inadeguatezza e dell’incompetenza tecnocratica.
Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo delle sole azioni necessarie per la messa in sicurezza di tutta l’area degli scavi. Più del doppio dello stanziamento. Ma sono trascorsi sette mesi e non è stata messa mano nemmeno a qualche intervento d’urgenza, di quelli che servono a gettare un po’ di polvere negli occhi, nessun cantiere è stato aperto. E d’altra parte i primi interventi così come sono stati declinati nel programma del solerte governo non riguardano la manutenzione e la messa in sicurezza delle zone aperte al pubblico, che così via via, scandite dai crolli, verranno interdette ai visitatori ma invece secondo il primato della fuffa e delle propaganda come sistema di governo, interesseranno il restauro e l’apertura di cinque nuove Case, del Criptoportico, di Sirico, del Marinaio, delle Pareti rosse dei Dioscuri – con un costo di cinque milioni di euro. E suona risibile l’ottimismo della Soprintendenza: quel bando per la “mitigazione del rischio idrogeologico”, pensato per avviare le prime opere atte a fronteggiare le infiltrazioni d’acqua e i conseguenti cedimenti, era atteso per l’inizio dell’estate. Invece è stata data notizia che negli ultimi mesi in controtendenza con le cifre scoraggianti sull’occupazione in Italia, sarebbero state effettuate ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti, dei quali si vorrebbero conoscere i compiti più ancora delle competenze maturate, forse addetti alla redazione della pomposa “Carta archeologica del rischio” declinata su 4 linee direttrici e cinque piani esecutivi. Mentre invece mancano i manutentori, ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire, due a vigilare e intervenire su quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico dove negli ultimi due anni sono stati sette i crolli, otto con quello di ieri e non certo per un fosco maleficio, ma per il concorrere di condizioni climatiche avverse ma prevedibili, combinate con l’incuria cui governi ottusi guardano come al desiderabile business che permette misure straordinarie, leggi speciali, commissari onnipotenti, fino all’auspicato avvento, alla attesa epifania dei capitali privati dei mecenati.
Invece servirebbe proprio ricominciare con la domestica e modesta ordinaria manutenzione, quella primaria e continuativa, pensata e esercitata da uno degli scopritori di Pompei, Amedeo Maiuri: procedure semplici e mezzi elementari, una squadra circolante che quotidianamente svolgeva ispezioni e attività di vigilanza, attraverso un piccone telescopico, in grado di sondare la tenuta delle pietre, e lo stato dei materiali. Se il piccone lanciava l’allarme si interveniva subito immediatamente con poche spese e forze ridotte.
A ogni annuncio, a ogni evento di presentazione di un magnifico progetto, a ogni sacra rappresentazione di solerte operosità, il governo recita il sua mantra: ci mette la faccia. Proprio la stessa faccia, probabilmente un lato B, che ci aveva messo proprio il B. più famoso, Berlusconi nominando appunto insieme all’altro non meno famoso mister B., Bertolaso, un supercommissario, tale Marcello Fiori, del quale si sa solo che in due anni di gestione tanto straordinaria da diventare mirabolante avrebbe speso 80 milioni di euro, non si vede quanti per i per i restauri e quanti invece per remunerazioni, consulenze, marketing e comunicazione, altrimenti chi la conosce Pompei? Tutte attività sulle quali la Guardia di Finanza aveva aperto un’inchiesta, coperta dal silenzio, come le macerie del sito archeologico più famoso del mondo, pudicamente celate ai nostri occhi da un sudario di nailon.