di Rina Brundu.
Che la nonna non raccontava mai storie di paschixedda. In realtà l’ho capito solo ora che il Natale non era festa davvero importante tra le nostre vallate, che non era tradizione atavica “sentita”, ma a quel tempo la vedevo diversamente. Era quindi con notevole trepidazione che attendevo i giorni di metà dicembre quando la zia portava me e mio fratello a raccogliere il muschio sul Monte ‘e sa furca. Da quel tempo in poi è rimasto sempre impresso nella mente il piacere quasi fisico che si provava nello staccare i “fogli” di tal erba umidiccia dalla pietra a cui si era attaccata da milioni di anni. Ed è rimasto sempre impresso il suo colore verde brillante, il suo profumo intenso impregnato di terra bagnata.
Di nuovo nella vecchia cucina rosata, ci ingegnavamo a costruire il miglior presepe che riuscivamo ad immaginare, sulla falsariga di quello grandioso che don Vinante allestiva nella sua Chiesa. Ricordo, adesso, che la nonna non partecipava mai in quelle nostre futilità. Seduta nel suo canto alla destra del focolare, fuso alla mano, lavorava ruvida lana che si proponeva di un bianco giallastro e ben diverso da quello smagliante che colorava la sua camicia. Antica. Il suo viso, spruzzato di sole, di tempo passato non rideva quasi mai e viveva costantemente disanimato da espressioni controllate. La notte di Natale sarebbe andata anche lei alla messa di mezzanotte, se non avesse piovuto, nevicato e se qualunque altra occorrenza dell’ultimo minuto non l’avesse impedito.
Che, a pensarci con attenzione, non ho mai davvero capito quale forma di religiosità l’animasse. E, forse, non mi sono mai fermata ad investigarla. Certo, nel corso di questa o quell’altra serata invernale, quando fuori si posava la neve e il mondo intorno viveva in silenzio per manifesta incapacità, lei non tralasciava di raccontare qualche storia di un Cristo-cristiano imprestato agli sfondi pagani della meravigliosa Sardegna più vera che lei aveva vissuto. Ma lo capivamo anche noi bambini che la fabula, per quanto ben costruita, viveva di istanti “forzati” e gli eroi… ah gli eroi… nulla parevano sapere delle greggi che soffrivano il tempo ai piedi della Grande Montagna, dei loro belati strani, dei canyon nascosti, dei dirupi, burroni, baratri, anfratti difficili e delle loro terribili storie.
Ricordo, adesso, che anche lei viveva quei “momenti” natalizi in silenzio. Come li rispettasse senz’altro ma ci tenesse soprattutto a meditarli, a tentare di razionalizzarli per capirne la reale portata e scoprirne l’intrinseco valore. Un valore che non era immediatamente intuibile sulla collina baciata da ogni umore del tempo e nonostante tutta l’agitazione intorno non era necessariamente scontato. I silenzi della nonna erano comunque diversi da quelli del nonno, il quale seduto sull’altro lato del camino, con la sua giacca e i pantaloni in velluto verdastro, si sporgeva verso le fiamme sfavillanti e rossastre mentre fumava l’eterno sigaro e mentre intento a riesaminare le tristi faccende della sua personalissima Grande Guerra. Ma nel fare muto dell’una e dell’altro risuonava potente l’eco del non-detto, l’eco delle storie che morivano con l’approssimarsi dei loro giorni più anziani. L’eco del tramonto di un’epoca che si annunciava, che finanche io intuivo ma che non avevo gli strumenti per fermare.
Nel mai-raccontato di quei giorni lontani i segreti più dolci, tristi, amari, banali, profondi, di infinite vite nate ai piedi della montagna e oramai perennemente obliate. “Bona Pasca” salutava la nonna il mattino del 25 dicembre e la festa finiva lì.
Featured image “Adorazione dei pastori” di Guido Reni.