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Sport, rito e diplomazia

Creato il 13 giugno 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Sport, rito e diplomazia

Sabato 8 giugno 2013 l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ha curato, all’interno della manifestazione “Sport Against Violence” svoltasi presso le Terme di Caracalla, la conferenza “Mediterraneo e Asia Centrale: prospettive geopolitiche nella transizione uni-multipolare“. Tra i relatori Matteo Finotto, ricercatore associato dell’IsAG, di cui riportiamo il testo dell’intervento.

 
Per fugare ogni dubbio sulla centralità del rapporto tra sport e diplomazia è sufficiente riascoltare le parole che il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ha pronunciato proprio qualche giorno fa in occasione dell’apertura del III Forum sullo Sport come veicolo di Pace e Sviluppo, organizzato dall’Onu insieme al Comitato Olimpico Internazionale e svoltosi proprio al Palazzo di Vetro.Per l’occasione Mr. Ban è stato insignito dell’Ordine Olimpico, il riconoscimento più prestigioso in ambito sportivo, che viene annualmente assegnato a chi ha contribuito con la propria professionalità a divulgare gli effetti benefici dello sport in ambito sociale. Ma il solo fatto che dal 2009 il Comitato Olimpico Internazionale sieda di diritto all’Assemblea delle Nazioni Unite come membro osservatore la dice lunga sul peso diplomatico che le competizioni sportive ricoprono nel mondo.

Anche nell’Antichità i giochi olimpici assolvevano delle funzioni politiche e sociali ben precise, scandite da rituali e pratiche regolate da codici comportamentali molto rigorosi, ma il riconoscimento ufficiale dello status ‘politico’ dello sport contribuisce certamente a definirne gli obiettivi a livello globale. Alcuni esempi delle aree di intervento congiunto di Nazioni Unite e COI:
 

  1. campagne di prevenzione AIDS (soprattutto in Africa)
  2. campagne anti doping e quindi contro le droghe in senso lato
  3. messa a punto dei programmi a favore dei rifugiati e richiedenti asilo
  4. operazioni di peace keeping
  5. sinergie ambientaliste (rendere ad esempio i giochi sempre più ‘green’)
  6. creazione degli youth center in molte zone dell’africa dove svolgono funzioni sociali molto importanti, come consultori, ambulatori medici e centri di informazione
  7. contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio (entro 2015)

  
E proprio su quest’ultima area di intervento si inserisce la campagna contro la discriminazione nello sport, messa in campo congiuntamente dall’UNOSDP (United Nations Office on Sport for Development and Peace), la divisione che si occupa di Sport all’interno delle Nazioni Unite e dal CIO (Comité International Olympique). L’idea è quella di replicare il successo che è stato raggiunto con il modello para olimpico dedicato alle persone disabili. La lotta alla discriminazione di genere nello sport non coprirà soltanto la componente femminile degli atleti ma anche, esplicitamente, l’universo lgbt. Ban Ki Moon ha infatti sottolineato che il libero orientamento sessuale degli individui non deve in alcun modo interferire con l’altrettanto libero accesso alle pratiche sportive né tantomeno creare tensioni o motivi di ulteriore discriminazione. Ricordo infine che lo sport è stato definito ‘diritto fondamentale per tutti’ dall’Unesco nel 1978 e inserito tra i ‘diritti umani’ nella Carta Olimpica.
 
Che cosa c’entra lo sport con la diplomazia? Stilare un elenco di tutti gli esempi storici in cui lo sport è entrato nelle dispute internazionali sarebbe da un lato riduttivo perché non aiuterebbe a risolvere il quesito.
L’antropologia, disciplina che studia l’uomo e le manifestazioni della cultura, può darci una mano a individuare quale sia la natura del rapporto che lega le due aree. Del resto sia lo sport sia la diplomazia nascono da e per l’uomo. Gli antropologi studiano le società tradizionali, quelle non industrializzate e che proprio per questo motivo consentono un’osservazione più diretta e naturale dei tipi umani. Slegarsi dai propri vincoli culturali e dall’etnocentrismo che caratterizza le società post industriali permette di valutare la risposta dell’uomo a precisi stimoli culturali. Soltanto un orientamento culturale di questo tipo ci può garantire un punto di vista oggettivo che permetta all’osservatore di analizzare il fenomeno senza correre rischi di favoreggiamento nei confronti di una posizione politica e comprendere i motivi della centralità dello sport nel parterre internazionale, dove non di rado svolge la funzione di deus ex machina.
 
Nelle società tradizionali il lavoro e il non lavoro coincidono. Questo significa che in termini temporali non esistono differenze quantitative o qualitative tra il tempo impiegato nella produzione, che nella cultura industriale coincide con l’attività lavorativa, da quello dedicato alle attività sociali, il cosiddetto tempo libero. La conseguenza diretta di questa interpretazione del tempo è l’identificazione delle attività sportive con quelle sociali e con le relative funzioni da assolvere. Presso alcune tribù del Nordamerica, ad esempio, ai bambini in fase puberale è richiesto di gareggiare in una corsa a piedi per segnare il passaggio alla fase adolescenziale. Il podismo assume dunque in questo caso il significato di un rito di passaggio. Nelle nostre società, invece, lo sport viene identificato con quella che alcuni definiscono una ‘riserva di rituali’. Ognuno di noi va a pescare in questo bacino di rituali per esaudire dei bisogni specifici, diversi per ciascuno, ma decisivi per la ricostruzione delle identità locali. I rituali moderni, di cui lo sport è massima espressione, hanno infatti una precisa configurazione geografica. Non a caso identità e spazio sono i due concetti più utilizzati finora, che a loro volta ci suggeriscono quelli di nazione e cittadinanza, molto utili per comprendere il rapporto con l’ambiente diplomatico.
 
Il calcio, ad esempio, è una delle espressioni principali di identità e spazio. È noto come l’affiliazione a un determinato club calcistico sia fortemente determinata da una sorta di patriottismo locale. Tifo la squadra della mia città perché la rappresenta e io mi sento parte di questo processo di identificazione. Quando poi il tifo si sposta sul piano nazionale, il senso di identificazione si amplifica ed esula in modo esplicito dalla pura passione sportiva. La configurazione geografica è centrale nell’analisi delle dinamiche che spingono un tifoso a scegliere la propria squadra del cuore. Ma a volte si sceglie anche secondo una tradizione familiare, dinamica sulla base della quale nelle società tradizionali si decide a chi delegare la gestione delle risorse alimentari e dunque in senso lato la stessa sopravvivenza del gruppo. Si stringono alleanze o si creano situazioni di scontro, anche violento. Non è un caso che alcuni antropologi si siano riferiti al calcio definendolo ‘guerra rituale’. Pensiamo anche al derby, che provoca un processo di identificazione ancora più forte che sostanzialmente spacca una città in due parti. In questo senso il posto che si occupa nello stadio, in senso letterale la posizione negli spalti, si identifica con la posizione occupata nel tessuto sociale cittadino inserendosi in un processo più ampio di identità collettiva. Tra l’altro la disposizione del pubblico sugli spalti simula la distribuzione dei gruppi sociali nelle cerimonie religiose; basti notare che anche negli stadi ai politici, e quindi in senso lato al potere, viene dedicata una tribuna privilegiata.

Anche i ritiri esemplificano la dimensione simbolica del gioco. Si tratta di veri e propri riti di separazione da eseguire con il rigido rispetto di alcuni codici comportamentali, tra cui l’astinenza sessuale e l’aspetto propiziatorio della preparazione. Un ultimo simbolo decisivo per inquadrare il valore sociale del calcio è il trofeo finale. La coppa è il simbolo della vittoria, spesso ha la forma di un calice che i campioni brandiscono e abbracciano e dove a turno bevono dopo averla riempita di vino. Per evitare il rischio di cadere in una forzatura è necessario sottolineare che non tutte le attività sportive si prestano alle operazioni di simbolizzazione che fanno parte della funzione ritualizzante. Alcuni sport, come lo sci, contribuiscono soltanto a rinforzare l’identità di una porzione di territorio, magari grazie al successo di alcuni grandi campioni. In generale più si pone l’accento sui valori e sui simboli della virilità, più le attività tendono al rituale e alla codificazione (infatti gli sport più antichi sono quelli più simbolici). Sia chiaro che l’interpretazione del rituale avviene sempre dall’esterno in antropologia, l’esegesi è infatti molto di rado elaborata da un gruppo.
 
Nell’antica Grecia era molto frequente che le competizioni sportive avessero luogo in concomitanza di grandi eventi religiosi. I giochi olimpici attiravano i migliori atleti da tutte le città greche, anche quelle spesso in guerra reciproca. Durante il periodo olimpico non poteva essere dichiarata nessuna guerra e i conflitti in corso dovevano essere sospesi. Laddove gli atleti fossero stati costretti ad attraversare delle zone di guerra per raggiungere la città sede dei giochi, venivano creati dei corridoi molto simili a quelli che oggi chiamiamo umanitari. Si tratta della prima vera testimonianza del ruolo diplomatico delle Olimpiadi nella Storia. I Giochi avevano in primo luogo una funzione religiosa: dedicati a Zeus, gli atleti si riunivano in un terreno sacro ai piedi del tempio dedicato al dio, a cui si rivolgevano in preghiera comune. Molto simile a quanto accade sui campi di calcio o sulle arene sportive quando si intona l’inno nazionale. Se un tempo il codice olimpico imponeva la sospensione di tutte le attività belliche, in qualche modo anche oggi l’avvicinarsi della cerimonia di apertura dei Giochi suggerisce un allentamento delle tensioni internazionali.
 
Lo sport vanta dunque un’antica e consolidata tradizione politica, sociale e religiosa. Ed è sulla scia di questo passato che ancora oggi la politica guarda con attenzione ai palcoscenici sportivi per lanciare messaggi o trovare occasioni di mediazione. I boicottaggi che spesso minacciano l’apertura delle Olimpiadi e che rappresentano la principale arma mediatica nelle mani dei governi e delle rispettive delegazioni atletiche, si inseriscono proprio all’interno di quest’ottica. Come del resto anche la presenza o l’assenza di un capo di Stato alla cerimonia inaugurale. Si pensi soltanto alla curiosità e al clamore che circondava il sospetto di boicottaggio da parte dei leader mondiali alla prima giornata di Pechino 2008. In occasione di Londra 2012 fu coniata un’espressione molto rappresentativa dell’atmosfera diplomatica che si respira sugli spalti olimpici e in particolare sulle tribune politiche: la diplomazia del Judo. È stato infatti proprio in occasione di un incontro di judo che per la prima volta dopo nove un capo di Stato russo ha messo piede sul suolo inglese. Fecero scalpore le fotografie di Cameron e Putin intenti a commentare i risultati del match. Un’occasione di riavvicinamento in nome dello sport.


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