Domanda logora, abusata, quasi banale, per qualcuno addirittura ideologica: che aspetta un ministro indagato a dimettersi? Non stiamo a fare paragoni con paesi dove ci si dimette per vicende che in Italia farebbero sorridere anche un'educanda. In Italia persino i reati di mafia non sono ritenuti così gravi da comportare un gesto di buonsenso (e di vergogna, in realtà). Ma scusatemi, ho sbagliato domanda. Il ministro non è indagato, ora è rinviato a giudizio, imputato formalmente. Che è peggio. Ed è imputato per concorso in associazione mafiosa, quel reato previsto dal famoso art. 416-bis "di" Pio La Torre. Un ministro che andrà a processo per mafia. Il ministro è Saverio Romano, il titolare dell'Agricoltura, il responsabile Francesco Saverio Romano, il leader di quel Pid che ha portato in dote alla maggioranza il sostegno di qualche ex Udc un po' nostalgico degli anni di governo.
Quattro giorni fa il Gip di Palermo ha rigettato la richiesta di archiviazione presentata inizialmente dalla Procura, imponendo ai magistrati inquirenti il rinvio a giudizio - e dunque l'imputazione. Così il pm Nino Di Matteo e il sostituto Ignazio De Francisci hanno depositato l'atto con la richiesta. I condizionali in questo sono sempre d'obbligo, ma ecco cosa scrivono i giudici nella richiesta di rinvio: «Nella sua veste di esponente politico di spicco, prima della Dc e poi del Ccd e Cdu e, dopo il 13 maggio 2001, di parlamentare nazionale, Romano avrebbe consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento dell'associazione mafiosa, intrattenendo, anche alla fine dell'acquisizione del sostegno elettorale, rapporti diretti o mediati con numerosi esponenti di spicco dell'organizzazione tra i quali Angelo Siino, Giuseppe Guttadauro, Domenico Miceli, Antonino Mandalà e Francesco Campanella».
Per chi non avesse conoscenza delle vicende e della storia della mafia, Siino è stato noto, almeno fino agli anni Novanta, come "il ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra". Guttadauro e Miceli sono nomi di una certa notorietà negli ultimi anni: il mafioso-chirurgo Guttadauro seppe delle cimici in casa sua da Miceli, assessore alla sanità a Palermo, che a sua volta l'aveva saputo da Totò Cuffaro. E infatti c'entra pure l'ex presidente della Regione, insieme al quale Romano avrebbe accolto la richiesta del capomafia Nino Mandalà di Villabate, che voleva Giuseppe Acanto nelle liste dei candidati del Biancofiore (lista che riuniva Ccd e Cdu) per le regionali del 2001.
Il ministro naturalmente è "addolorato e sconcertato". Però poteva immaginarselo, no? Già all'epoca della sua nomina il Quirinale aveva espresso forti riserve, proprio a causa dell'indagine palermitana. Eppure domenica così scriveva sul suo sito: «La mia vicenda è un paradosso del nostro sistema giudiziario e la tratto come se non mi appartenesse, come in effetti nella sostanza non mi appartiene. Andiamo avanti senza tentennamenti. Ogni cosa andrà al suo posto». Al suo posto e senza tentennamenti: dove, signor ministro, a Palazzo Chigi o in tribunale?