Spring Breakers – Una Vacanza da Sballo era uno dei film che aspettavo in questo 2013, e la sensazione immediata che mi ha trasmesso è: che sono troppo vecchio.
O almeno mi ci sento.
E non è tanto una questione di sentirsi inadatti a fronte di feste stracolme di studenti e studentesse semi-nude e completamente ubriache e/o fatte, e/o ubriache e fatte allo stesso tempo… piuttosto, che so, dieci anni fa, per una regia come quella di Harmony Korine (sì, il regista è sposato con una delle Spring Breakers del titolo, Rachel Korine, che interpreta Cotty), psichedelica, colorata e che se la spassa incasinando i piani temporali e il sincronismo audio-video, ci sarei andato matto.
Probabilmente Spring Breakers, dieci anni fa, sarebbe stato “una pietra miliare”. Oggi, dovendo riassumere, pur restando notevole l’impressione suscitata dal lato cromatico e estetico, Spring Breakers è un film piuttosto bruttino, noioso da guardare proprio a causa di quello stesso montaggio fuori sincrono.
Il difetto non è nella creazione, da parte di questo montaggio, di un ostacolo verso la fruibilità della trama, ritengo infatti che il senso di confusione che una fotografia videoclippara riesce a suscitare sia coerente con lo stato alterato delle protagoniste dopo l’assunzione di alcool, droghe e di botte di adrenalina gigantesche in seguito alla rapina; è che… osservare scene che narrano altri spaccati dell’esistenza di queste quattro sgallettate ascoltando l’audio di una sequenza che, magari, è iniziata dieci minuti prima e non si sa dove voglia andare a parare, risulta essere un pochetto frustrante.
Ma come dicevo, anni fa me lo sarei bevuto come uno shot di whisky o di rum e pera, ‘sto film, ora invece devo fare i conti con la vecchiaia. Maledetta vecchiaia (e sì che non ho ancora quarant’anni, ma il mondo va veloce)…
Da sinistra, Selena Gomez, Ashley Benson, Rachel Korine e Vanessa Hudgens
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Spring Breakers contava molto sul presunto impatto scandalistico che l’unione di quattro giovani attrici, per di più orbitanti attorno al mondo Disney (Vanessa Hudgens), alle quali viene affidato un equipaggiamento di fucili a pompa, passamontagna rosa con lo stemma dei Mini Pony e pacchi di cocaina, avrebbe suscitato. Missione riuscita, se ne è cominciato a parlare mesi prima che il film fosse distribuito. Scandalo coadiuvato dallo scoppio che la vista di tette e culi shakerati, stretti in bikini minuscoli in feste sul mare della Florida aveva provocato al Festival di Venezia: altisonanti titoli (un po’ bacchettoni) del tipo Selena Gomez e Vanessa Hudgens, le fidanzatine d’America, sconvolgono la loro immagine…
Insomma, le solite robe moralistiche. Abbastanza improponibili, al giorno d’oggi, perché scandalizzarsi per questo tipo di immagini e per questo tipo di storie aventi per protagonisti diciottenni che rapinano un fast-food unicamente per ottenere i soldi coi quali pagarsi la Spring Break (la pausa primaverile durante la quale gli studenti americani festeggiano duro), vuol dire credere davvero alle favole Disney, o mettersi i paraocchi.
Perché se sono quattro attrici in costume a essere messaggio e scandalo, allora si fa finta di non vedere, per dirne una, il mercato multimiliardario dell’industria pornografica.
In pratica, i critici che contano vivono in un mondo in stile The Sims.
E badate, non sto avallando nessun sistema per far soldi, tanto meno il porno. Solo che esiste, e fingere che in realtà non ci sia, o che non sia al di là dello scandalo, è da imbecilli.
Le Spring Breakers insieme a James “Alien” Franco
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Ma non è solo sul facile scandalo che Spring Breakers si regge. Come detto, la fotografia danza intorno ai videoclip, il montaggio non aiuta per niente, perché personalmente mi ha tenuto distante dal coinvolgimento emotivo e dall’interesse nella storia, che è talmente esile che basta un nulla per fregarsene. Già trovavo particolarmente difficile condividere lo sballo cercato dalle Spring Breakers, figurarsi poi se c’è pure da resistere a una struttura soporifera.
E tuttavia, la realtà che ci viene presentata è plausibile, non tanto nelle conseguenze estreme, un finale estemporaneo sul quale non faccio alcuna anticipazione, quanto nella messinscena del vuoto pneumatico che è la vita (ma chiamiamola anche “i valori” e “i sogni”) delle giovani protagoniste. Se facile può apparire la catena videogiochi/fuga dalla realtà/rapina in un fast food, è proprio nella pochezza dei dialoghi, nella profondità pari alla vasca di un acquario delle sagome che sono queste ragazze che si intravede un realismo fin troppo evidente.
Anche qui, lungi da me fare generalizzazioni, ma allo stesso tempo negare che esistano giovani vuoti è sciocco. Paradossale, ma a pensarci bene ovvio, invece, che le protagoniste assumano un’identità, che corrisponde a un maggior spessore dal punto di vista narrativo, quando l’identità viene loro sottratta, ossia quando vestono i passamontagna rosa: estetica e filosofia della maschera, che accarezza l’autodistruzione.
Ma non solo di autodistruzione stiamo parlando, anche di retorica religiosa, dal momento che Korine affida a Selena Gomez, la ragazza che s’allontana sulla via del peccato dalla confortevole comunità religiosa in cui ci si raduna, sedendosi in cerchio e pregando tenendosi per mano, e che, tentata da James Franco (Alien, nel film; nomen omen), decide in lacrime di lasciare le compagne d’avventura quando la stessa, da festa senza freni, si sta tramutando in droga e fucili e spacciatori organizzati.
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In realtà, non è la pecorella smarrita che ritorna all’ovile a costituire preferenza della regia. Piuttosto appare come l’ennesima scelta consapevole da parte di Korine di prendere lo stereotipo e elevarlo a esempio.
Esempio di cosa?
Di quello che c’è là fuori, che il mondo che crede alle principesse Disney nega di vedere.
Anche qui, non ritengo trattasi di operazione riuscita, ma non dispenso nemmeno consigli su come avrebbe potuto essere una scelta più compiaciuta (e magari anche più commerciale) di regia.
Spring Breakers promette tanto, ascoltando le voci di terzi, e mantiene poco, ma quel poco è portato avanti con convinzione e classe, pur trovandolo, personalmente, appena sufficiente, quando non proprio irritante.
Per spettatori scafati, abituati a ben altri “massacri” e scandali cinematografici, guardare quattro ragazzine (sì, sono ventenni, ma sono ragazzine) che cantano Britney Spears imbracciando fucili a pompa intorno a un pianoforte bianco sì, è in un certo qual modo esotico, ma non di più; vederle fumare cristalli d’acido è quasi, cinematograficamente parlando, “normale”, non sussistendo una scena una che sia davvero in grado di sconvolgere.
Ma non facciamo confusione, questo è cinema, ovvero la spettacolarizzazione della realtà. Quest’ultima è tutta un’altra storia.
(N.B.: la versione italiana ha subito un taglio di alcuni minuti rispetto a quella originale)
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