Magazine Ciclismo
Il nostro racconto inizia dallo zio. Stephen Roche è stato un corridore di assoluto talento tra i primissimi anni ‘80 e gli anni ’90. Non un gigante, ma un corridore di grande classe. Fino al 1987, era stato un ottimo corridore, capace di portare a casa una Parigi-Nizza e due Giri di Romandia, oltre al terzo posto al Tour del 1985 dietro i dominatori con la maglia Vie Claire, il mito Bernard Hinault e il rampante Greg Lemond.
Nell’87, in maglia Carrera, l’apoteosi. A maggio, dopo un terzo Romandia come antipasto, conquista il Giro d’Italia, dove parte nel ruolo di gregario di lusso del detentore Roberto Visentini, con l’accordo che al Tour del France i ruoli si sarebbero invertiti e la cortesia sarebbe stata restituita. Tutto secondo i piani fino a Sappada, quando l’irlandese, fregandosene del gentlemen agreement, va in fuga e strappa la maglia rosa dalle spalle del compagno capitano. La squadra si spacca, ma lui porta la maglia rosa fino a Milano.
Al Tour de France, concede il bis: resiste agli attacchi di Perico Delgado sulle montagne (a La Plagne, dà tutto e anche un po’ di più, avendo necessità di una bombola di ossigeno dopo il traguardo), a cronometro mette il sigillo.
Infine, ad agosto, al mondiale di Villach, si barda dell’iride, beffando Moreno Argentin, e vendicando quello che era successo nella primavera prima a Liegi.
Infatti, proprio alla Liegi-Bastogne-Liegi, prima della pazzesca tripletta di cui sopra, Roche subisce un rovescio tremendo e - mi sia concesso - un pò ridicolo. Succede infatti che sulla Redoute, l’irlandese e Criquelion si involano, staccando gli avversari. Tutto procede bene fin dentro Liegi, quando i due, lungo la Mosa (l’arrivo è nel salotto buono della città, e non sullo strappo periferico di Ans come oggi), cominciano a rallentare, a guardarsi. Probabilmente non sanno chi è il più veloce tra loro e diffidano l’uno dell’altro. Intanto il vantaggio, pur rassicurante, cala. Roche e Criquelion rallentano ancora, fino quasi al surplace, e il vantaggio scende, e scende ancora. A poche centinaia di metri dall’arrivo, mentre prosegue la folle prova dei nervi, sopraggiungono gli inseguitori, tra cui Moreno Argentin, che mette entrambi d’accordo, battendoli in volata. Roche secondo, Criquelion terzo.
Dopo il 1987, Roche non sarà più Roche: arriveranno un Giro dei Paesi Baschi, un Criterium International, e la tappa de La Bourboule al Tour ’92, a rinverdire - per un giorno - i fasti di un tempo.
La storia prosegue con il nipote, Daniel Martin: scalatore alto, magro, allampanato. Non elegante. E forse è proprio questa mancanza di postura, di charme, a renderlo - a mio modesto giudizio - il corridore più sottovalutato del ciclismo professionistico contemporaneo. Tra i favoriti della vigilia non compare mai, è un outsider sempre e comunque. Eppure, risultati alla mano, è uno dei ciclisti più duttili del panorama attuale, capace di vincere in linea e a tappe.
In montagna è forte, ha vinto la tappa con arrivo in quota a La Covatilla alla Vuelta 2011 staccando tutti i favoriti sull’erta finale. Ha anche vinto il Catalogna 2013 (era già stato secondo nel 2009 e 2011). Nelle corse di un giorno, non è affatto male: si sta parlando pur sempre di uno che, oltre ad aver vinto una Tre Valli Varesine ed un Giro di Toscana, ha fatto secondo al Giro di Lombardia 2011, quinto alla Liegi 2012 e sesto alla Freccia Vallone dello stesso anno.
Ebbene il nipote, a marzo 2013, vince il Catalogna, imponendosi in solitaria nell’arrivo in salita di Port Ainé-Rialp, dove stacca gente del calibro di Rodriguez, Quintana, Van den Broek e Gesink: non proprio degli sconosciuti.
Poi partecipa alla campagna del Nord, sulle Ardenne, ed inizia con un ottimo quarto posto alla Freccia.
Poi, la domenica, fa un capolavoro a Liegi. Sulla rampa di Ans, Daniel va a riprendere Purito Rodriguez, scattato a un chilometro dall’arrivo come da copione. Lo riprende e lo salta, con la sicurezza e la decisione che, in famiglia, altri non ebbero. Purito annichilito sul suo terreno: raramente capita.
E così, Daniel Martin, il brutto anatroccolo, l’outsider “sempre e comunque”, si prende la Doyenne.
Forse non vincerà il Giro e il Tour (a cronometro, va oggettivamente troppo piano), né il Mondiale. Ma la Doyenne, in bacheca - lui - ce l’ha. Alla faccia dello zio Stephen.
Marco Bottai
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